8 Lug 2020

Scambi globali: Il tallone d’Achille del WTO

Global Watch

Se è vero – ed è vero – che il tallone di Achille del diritto internazionale è la mancanza di un giudice naturale, ossia un’autorità precostituita per legge cui chiunque possa rivolgersi per la tutela dei propri diritti e che possa se del caso irrogare sanzioni, tale fragilità intrinseca del sistema, per quanto riguarda controversie in materia di commercio internazionale, sembrava aver trovato un efficace rimedio.

 

Quando nel 1995 si è dato vita al World Trade Organization (WTO), l’adozione dell’Intesa sulle norme e procedure che disciplinano la soluzione delle controversie (Understanding on Rules and Procedures Governing the Settlement of Dispute – DSU, c.d. Intesa), strumento che sulla base del single undertaking approach deve essere necessariamente ratificato da chi voglia acquisire la membership dell’Organizzazione, ha predisposto un meccanismo caratterizzato da un ambito di applicazione tendenzialmente unitario. E questo tanto ratione materiae (poiché attivabile, salvo sporadiche eccezioni, in relazione a tutti i settori del commercio multilaterale, sì da costituire un vero e proprio global trade system), quanto rationae personarum (godendo ciascun membro della legittimazione attiva e passiva). In estrema sintesi, non solo si sottrae alle parti in lite il rimedio par excellence del diritto internazionale tradizionale, ossia il ricorso a contromisure incrociate ispirate al farsi giustizia da sé, ma si traccia un quadro giuridico paragiurisdizionale articolato in tre principali momenti: l’istituzione del Panel, l’adozione del Panel Report o dell’Appellate Body Report, l’autorizzazione a porre in essere contromisure in caso di mancato adeguamento del membro alle risultanze dei Reports

 

Fulcro e dominus di questo sistema è il Dispute Settlement Body (DSB), organo collegiale composto da un rappresentante di ciascun Membro, che adotta le sue decisioni sulla base dell’inverted consensus, ossia dispone la creazione di un Panel, adotta i Reports e presiede la fase dell’esecuzione delle raccomandazioni e decisioni accolte in ordine alla singola lite, disponendo, se del caso e quale extrema ratio, la sospensione di concessioni commerciali in danno della parte soccombente che non si sia adeguata alle prescrizioni indirizzatele, nei termini fissati, a meno che non vi sia un unanime dissenso di tutti i suoi membri.

 

La paralisi dell’Appellate Body

Ebbene, questo sofisticato meccanismo, che ha anche il vantaggio di prevedere un range temporale per ciascuna fase e dunque assicura un contenzioso rapido, è entrato in crisi per l’inceppamento di quello che sembrava essere il suo punto di forza, ossia l’Appellate Body. Nella complessa alchimia di elementi giurisdizionali, in verità preponderanti, e strumenti politici volti alla composizione dei conflitti, questa sorta di secondo grado di giudizio, destinato a revisionare le conclusioni raggiunte dai panelists, ha rappresentato in una prima fase della vita del WTO un banco di prova ineludibile per la pressoché totalità dei casi esaminati dai Panels. Successivamente è stato talvolta disertato per timore di soluzioni non gradite che potessero cristallizzarsi in virtù del principio dello stare decisis, talaltra è stato utilizzato a fini dilatori o, ancora, attivato in modo strategico per poter far leva su una pronuncia anche a fini di mera politica interna (una sorta di «è il WTO che ce lo chiede»). 

 

La necessaria messa a punto del meccanismo di soluzione delle controversie era stata avvertita fin dal 1994, quando i membri di quello che allora era l’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (General Agreement on Tariffs and Trade – GATT ‘47) hanno adottato una decisione alla Conferenza ministeriale di Marrakech che disponeva una revisione completa delle regole e delle procedure di risoluzione delle controversie nell’ambito della istituenda Organizzazione entro quattro anni dall’entrata in vigore dell’accordo che la creava: i membri del WTO avrebbero dovuto decidere se continuare a mantenere, modificare o porre fine a tali regole e procedure. Ebbene, a tutt’oggi l’unico risultato raggiunto è stato quello di sottrarre tale revisione al single undertaking della Doha Development Agenda – vale a dire che la revisione non è legata alle altre questioni in corso di negoziazione, né è subordinata alla sua conclusione. Il mandato di Doha ha inizialmente fissato a maggio 2003 la scadenza per la conclusione del riesame e, dopo una prima proroga – passata infruttuosamente – al maggio 2004; tre mesi dopo il Consiglio generale della WTO ne ha concordata una ulteriore, senza tuttavia stabilire una nuova scadenza.

 

L’ostruzionismo degli Stati Uniti

Nello scenario che si è venuto a delineare si è fatto leva sul potere di veto di cui ogni membro della WTO dispone in seno al DSB allorché tale organo (in una veste più squisitamente politica) debba nominare o confermare uno dei 7 componenti dell’Appellate Body del WTO: sulla base di tale diritto di veto, gli USA, ormai dal maggio 2016, stanno bloccando la tempestiva ricostituzione della piena composizione del collegio giudicante di secondo grado, sulla base dell’affermazione che le decisioni dell’Appellate Body siano molto politiche e poco giuridiche ovvero overreach the Wto laws

 

Così, quando l’11 dicembre 2019 il mandato di due componenti della Corte è scaduto, ne è rimasto in carica solamente uno e ciò di fatto comporta che nessun nuovo caso può essere sottoposto all’Appellate Body, lasciando in un limbo legale le controversie tra i membri: l’Intesa richiede infatti, da un lato, che la sezione giudicante di un giudizio d’appello sia composta da tre membri, e, dall’altro, riconosce in capo a ogni parte della controversia il diritto di appellare il Report di un Panel, con la conseguenza che la parte soccombente in primo grado, impugnando il Report del Panel dinanzi a un Appellate Body che non è più nella condizione di giudicare, poiché appunto ridotto a meno di tre componenti, ne blocca tout court l’adozione.

 

Le proposte di riforma

Questa impasse paralizzante in cui si trova l’intero meccanismo di risoluzione delle controversie ha causato un’escalation delle guerre dei dazi soprattutto da parte degli Stati Uniti e, registra il ricorso a escamotage da parte di altri membri del WTO per bypassarla

 

In effetti, in un primo momento l’Unione europea (Ue) ha avanzato, con coalizioni variabili, proposte di riforma ispirate vuoi ad accelerare e rendere più trasparente il funzionamento dell’Appellate Body (portando da 7 a 9 i membri, unitamente a un meccanismo automatico di sostituzione dei componenti in uscita in modo da individuare i “nuovi” giudici prima della scadenza del mandato dei “vecchi”); vuoi a modificare il meccanismo di nomina dei suoi membri rimodulandone il mandato: dall’attuale incarico di 4 anni, rinnovabile una volta, a un mandato unico di 6 o 8 anni, posto che un mandato di più ampio respiro rafforzerebbe l’indipendenza dei membri perché in tal modo non sarebbero sottoposti a scrutinio dopo i primi quattro anni di lavoro (venendo dunque epurati per l’eventuale opposizione al rinnovo di quelli sgraditi). 

 

Tutte queste proposte sono cadute nel vuoto per l’opposizione statunitense, opposizione peraltro alquanto apodittica e dogmatica perché per nulla motivata. Così, da ultimo, l’Ue ha messo in campo sia rimedi ad hoc sia soluzioni più strutturate, entrambi facenti perno sull’art. 25 del DSU che dà ai membri la facoltà di risolvere il contenzioso in cui siano coinvolti facendo ricorso all’arbitrato

 

Sotto il primo profilo, si annovera il Panel arbitrale composto dal Prof. Giorgio Sacerdoti (che, merita ricordare, proprio dell’Appellate Body è stato membro dal 2001 al 2009 e suo presidente nel 2006-2007), lo svizzero Christian Häberli e l’ucraino Victor Muravyov,. Il Panel è stato costituito, in base all’Accordo di associazione Ue-Ucraina, per una controversia relativa al blocco dell’esportazione di legname introdotto dall’Ucraina verso i Paesi membri dell’Ue. A giorni si attende la sua pronuncia. 

 

Sotto il secondo profilo, il 30 aprile 2020 l’Ue e altri 19 membri del WTO (Australia, Brasile, Canada, Cile, Cina, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Hong Kong, Islanda, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Pakistan, Singapore, Svizzera, Taiwan, Ucraina, Uruguay) hanno formalmente comunicato all’Organizzazione un accordo provvisorio, il Multi-Party Interim Appeal Arbitration Arrangement che prevede una procedura arbitrale di appello, modulata sulla base delle regole previste dal WTO del sistema di soluzione delle controversie: verrà applicata tra i Paesi aderenti solamente per il periodo durante il quale l’Appellate Body continuerà a non essere operativo. L’accordo prevede una clausola di adesione, cioè è aperto a ogni membro del WTO che volesse sottoscriverlo, e rappresenta uno strumento pragmatico e flessibile e dunque, benché l’obiettivo della più gran parte dei 164 Membri della WTO sia quello di trovare una soluzione a lungo termine, si corre il rischio che, come accaduto per il GATT ’47 che ha regolato in modalità provvisoria per quasi mezzo secolo le relazioni commerciali fra le sue parti, anche questa volta il temporaneo si trasformi  – se non in definitivo, quanto meno – in lungamente duraturo.

 

Uno scenario complesso, al tempo stesso potenzialmente dannoso per gli scambi internazionali già duramente provati dalla pandemia e dalla conseguente crisi economica, che ha determinato una riduzione a doppia cifra dei flussi internazionali di merci. Con l’aumento su larga scala delle misure protezionistiche, la piena operatività del WTO è fondamentale per garantire il rispetto delle regole che hanno prodotto una progressiva, seppur incompleta, liberalizzazione degli scambi. Una riforma complessiva dell’Organizzazione, che potrebbe essere promossa dal nuovo Direttore generale – che verrà designato dopo il perfezionamento delle dimissioni di Roberto Azevêdo –  è fondamentale per garantire la rilevanza futura del WTO. La soluzione delle tensioni commerciali in essere e la rimozione degli ostacoli tariffari e non tariffari introdotti dopo lo scoppio della pandemia rimangono priorità ineludibili. La loro soluzione è cruciale per evitare che si generi una spirale negativa di misure restrittive del commercio e conseguenti contromisure, che potrebbero rendere strutturale il calo dei flussi commerciali internazionali causato della pandemia. 

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