9 Lug 2020

DATAVIRUS: la letalità reale (tre mesi dopo)

CoVid-19

Quanto è davvero letale COVID-19, la malattia causata dal nuovo coronavirus? Ovvero, quante persone uccide l’infezione, tra quelle che si infettano? Per mesi siamo stati costretti a ipotizzarlo, a dedurlo sulla base di “esperimenti naturali”, andando alla ricerca di luoghi chiusi o popolazioni controllabili entro cui il virus si fosse diffuso: una nave da crociera, piccoli paesi focolaio, analisi sulle persone evacuate da Wuhan. Da oggi sarà sempre meno così, perché finalmente arrivano i primi risultati di studi condotti tramite somministrazione su vasta scala di test sierologici. Gli studi ci danno un’indicazione migliore di quanto il virus si sia realmente diffuso in ciascuna popolazione.

I risultati confermano ciò che ISPI aveva ipotizzato a fine marzo: la letalità del virus in Europa occidentale si aggira intorno all’1% delle persone infette. Non si tratterebbe certo di quel 10% di letalità cui si era avvicinato il virus della SARS nel 2002-2004. Ma neppure di quello 0,1% attribuibile a una “banale” influenza stagionale (influenza che, comunque, resta uno dei più grandi “acceleratori di morte” presenti al mondo).

Come siamo arrivati a una conferma delle nostre stime di fine marzo? Sfruttando le informazioni contenute nei risultati dei test sierologici su vasta scala condotti in Spagna e in Inghilterra (attenzione: non nel Regno Unito) nelle ultime settimane. Cominciamo dalla Spagna. Qui, uno studio dell’Instituto de Salud Carlos III ha stimato che all’11 maggio 2020 solo circa il 5% della popolazione spagnola aveva contratto il virus (95% CI: 4,7% – 5,4%). Incidentalmente, si tratta di un numero che si avvicina moltissimo alle stime di prevalenza dell’infezione in Spagna (5,3%) che avevamo pubblicato lo scorso 15 maggio.

Lo studio del Carlos III è cruciale perché è tra i primi ad adottare metodi statisticamente robusti: ha coinvolto oltre 61 mila persone selezionate con campionamento casuale a due stadi (two-stage random sampling), il che assicura una rappresentatività del campione selezionato molto maggiore rispetto ad altri test sierologici condotti in precedenza, nei quali la popolazione era reclutata tramite campagne a mezzo stampa, televisione o social media. In caso di reclutamento proattivo, infatti, le persone tendono ad “autoselezionarsi”: chi ha avuto sintomi associati a COVID-19 sarà più propenso a partecipare rispetto a chi non li ha avuti. A sua volta, l’autoselezione tende a rendere i risultati dello studio non generalizzabili alla popolazione di riferimento. Con un campionamento casuale lo studio del Carlos III, invece, evita tutto questo.

Per calcolare la letalità dell’infezione è a questo punto possibile utilizzare queste stime di prevalenza, rapportandole al numero di decessi attribuibili a persone infette da SARS-CoV-2 nel periodo corrispondente. Per ottenere questo numero abbiamo a disposizione due alternative: rifarsi al numero di morti ufficiali, che include solo le persone decedute che sono risultate positive a un test per rilevare la presenza del virus; oppure avvalersi dell’eccesso di mortalità nel corso dell’epidemia, che include una stima del numero di persone decedute tra metà marzo e metà maggio 2020 in numero superiore rispetto alla media dei cinque anni precedenti. Utilizziamo entrambe, fermando il conteggio al 16 maggio, data di conclusione dello studio più cinque giorni (tempo mediano perché una persona positiva al virus deceda). In questo modo, la letalità del virus in Spagna sarebbe dell’1,17% (95% CI: 1,08%–1,24%), se usiamo il numero di decessi ufficiali, o dell’1,34% (95% CI: 1,24%-1,42%) se usiamo l’eccesso di mortalità. La stima centrale della letalità dell’infezione cui si perviene in questo modo è molto vicina a quella che ISPI aveva proposto per l’Italia a fine marzo, ovvero 1,14% (95% CI: 0,51%–1,78%).

Possiamo fare lo stesso con i risultati dei test sierologici in Inghilterra. Nel suo ultimo rilascio di dati della “COVID-19 Infection Survey”, risalente allo scorso 2 luglio, l’Istituto di statistica britannico (ONS) ha stimato che il numero di persone che hanno sviluppato anticorpi ammonta al 6,3% della popolazione (95% CI: 4,7%–8,1%). L’incertezza intorno al valore centrale è relativamente più ampia perché il campione di persone contattate è nettamente più piccolo. Anche in questo caso, comunque, possiamo raffrontare la stima della prevalenza dell’infezione nella popolazione generale inglese con il numero di decessi ufficiali e con l’eccesso di mortalità fatto registrare nel periodo. In questo modo otteniamo una stima di letalità di COVID-19 in Inghilterra dell’1,0% (95% CI: 0,80%–1,39%), se usiamo il numero di decessi ufficiali, o dell’1,47% (95% CI: 1,15%–1,97%) se usiamo l’eccesso di mortalità. Queste stime paiono confermare ancora una volta che la letalità del virus nei paesi dell’Europa occidentale, che hanno un numero di abitanti anziani relativamente simile, gravita intorno all’1%.

In conclusione, cosa ci dice questo sul presente e il futuro della pandemia di COVID-19? Due cose, non molto positive. La prima riguarda la letalità in quanto tale: un tasso di letalità che si aggira intorno all’1% degli infetti rappresenta forse la peggior sfida per i sistemi sanitari mondiali. Nel caso la letalità fosse stata molto più alta, come con le infezioni da SARS del 2002-2004, la diffusione del virus si sarebbe autolimitata, perché i suoi ospiti si sarebbero ammalati più gravemente e molto più in fretta, divenendo infermi, a casa o in ospedale, e dunque molto meno capaci di infettare altre persone. Se, invece, la letalità fosse stata molto più bassa, ci saremmo potuti preoccupare meno del nuovo coronavirus, e trattarlo solo come un’altra influenza, più grave semplicemente perché non disponiamo ancora di un vaccino. Purtroppo, non è così.

La seconda cosa riguarda proprio la prevalenza del virus, stimata nel 5% in Spagna e nel 6% in Inghilterra. Ciò significa che, anche in due delle regioni più colpite al mondo, il numero di abitanti che è stato infettato dal virus è ancora molto basso. Il che significa che circa 19 abitanti su 20 restano potenzialmente suscettibili di contrarre l’infezione. È lontano il sogno di raggiungere quella famosa “immunità di gregge” (nel caso di SARS-CoV-2, una diffusione del virus nella popolazione di oltre il 70%) che frenerebbe di molto l’ulteriore diffusione del virus alle persone che ancora non avessero contratto l’infezione.

Per comprendere l’entità della sfida che ci si para davanti, basti pensare a cosa significherebbe tentare di raggiungere l’immunità di gregge in numero di decessi: per raggiungere una prevalenza del virus del 70%, in Spagna occorrerebbe attendersi almeno altri 350.000 decessi (contro i circa 27.000 ufficiali fatti registrare a oggi). E, se si volesse fare lo stesso nel Regno Unito – rapportando la prevalenza inglese all’intero territorio britannico –, le morti da mettere in conto sarebbero almeno altre 450.000 (rispetto alle circa 44.000 ufficiali a oggi).

Malgrado in Europa occidentale la prima ondata sia trascorsa, le evidenze di cui disponiamo a oggi ci dicono che SARS-CoV-2 e le infezioni che provoca continuano a rappresentare sfide formidabili. Come ribadiamo quasi ogni settimana, la conclusione non può che essere una sola: le riaperture sono necessarie e inevitabili, ma il virus non è scomparso, e continuerà per diverso tempo a minacciare i nostri sistemi sanitari e la tenuta dei nostri sistemi economici. Occorre mettere in atto tutti i comportamenti individuali e le risposte di politica sanitaria sufficienti a contrastare quello che, a oggi, rimane il nostro peggiore nemico invisibile da decenni a questa parte.

Corsi correlati

Vedi i corsi
Not logged in
x