18 Nov 2019

Cile: una nuova costituzione per uscire dalla crisi

Trovato l'accordo

Dopo un mese di proteste di piazza, con il drammatico corollario di oltre 20 morti, centinaia di feriti e gravi violazioni ai diritti umani commesse dalle forze dell’ordine, la politica cilena ha trovato un accordo con il quale si spera di superare la crisi sociale: l’avvio dell’iter per la stesura della nuova Costituzione. 

Non è stato facile ed è difficile affermare se questo basterà per placare il malcontento. La rabbia dei cileni che sono scesi in strada in queste quattro settimane non è un fenomeno passeggero, ma il risultato di un malcontento accumulato durante gli anni. Un’insoddisfazione cresciuta tra le pieghe di un sistema economico e un modello politico che pur è stato venduto, in patria come all’estero, come un miracolo nella turbolenta Sudamerica, per la capacità di garantire una drastica diminuzione della povertà dai tempi della dittatura ad oggi, assicurare stabilità democratica e la tenuta delle istituzioni. Quel sistema – ce l’hanno mostrato le rivendicazioni in piazza di studenti, pensionati, lavoratori ed intere famiglie – ha prodotto un livello di diseguaglianza unico nel continente e un peggioramento progressivo delle condizioni di vita a livello generale. I cileni, o buona parte di loro, lavorano troppo, non guadagnano a sufficienza per poter far fronte all’aumento costante delle tariffe dei servizi pubblici, sono costretti a contrarre debiti onerosi per far studiare i propri figli e vivono con la preoccupazione che un problema di salute possa erodere i loro risparmi, già che è molto difficile avere accesso ad un trattamento adeguato nella rete pubblica. “Mamma – recitava un cartello portava da un giovane in piazza a Santiago – sono qui perché il turno per la tua operazione in ospedale è arrivato nel giorno del tuo funerale”. 

Il presidente Sebastian Piñera ha gestito la crisi in maniera disastrosa con un andare erratico tra il desiderio di mostrare alla società la mano dura contro saccheggi e distruzioni e quello di rendersi attento alle esigenze della piazza. Poco empatico con i manifestanti, la maggior parte dei quali è scesa in piazza in forma assolutamente pacifica, è passato dalla assai infelice dichiarazione di guerra dei primi giorni alle prime timide concessioni, troppo lievi e in ritardo per poter, in qualche modo, ribaltare la partita a suo favore.

Contro di lui, in quanto capo dello stato e responsabile in ultima istanza dell’ordine pubblico, pesano le gravi denunce per le violazioni ai diritti umani commesse dai carabineros e dall’esercito. L’istituto dei diritti umani (INDH) attribuisce a queste forze cinque omicidi, una trentina di casi di violenza sessuali e il poco invidiabile record di oltre duecento persone che hanno perso parzialmente o interamente la vista a causa dei proiettili di gomma sparati sulla folla. Non è un caso che la popolarità del presidente è crollata e che la stragrande maggioranza dei manifestanti chiede oggi le sue dimissioni. 

Ma Piñera, con tutta probabilità, continuerà a governare per i due anni e quattro mesi che mancano al termine del suo mandato e questo è, in ogni caso, un bene; dimostra che la democrazia cilena, pur ampliamente migliorabile nelle sue forme di partecipazione, è più solida di quella di altri paesi della regione, dove per molto meno ci sarebbe stato un elicottero pronto sul tetto del palazzo presidenziale. 

Se Piñera è uno sconfitto in tutta questa vicenda ancora inconclusa, il resto della classe politica cerca ora di salvare il salvabile. Persino i settori più recalcitranti della destra, i parlamentari del partito UDI, costola diretta del pinochettismo, hanno capito che, questa volta, il gioco si è fatto serio. A trent’anni dalla fine della dittatura la società esige una nuova Costituzione per porre fine a quella transizione pilotata tra regime militare e democrazia che ha caratterizzato il caso cileno. Quella “giustizia nella misura del possibile” alla quale faceva riferimento il primo presidente democristiano Patricio Alwyn pensando ai delitti commessi dal regime è stata applicata in realtà a tutte le sfere dell’azione pubblica. Il Cile è stato, finora, una democrazia solida ma nei limiti del possibile, imprigionato in un modello statico sia dal punto di visto politico e economico, con poche e limitate modifiche alla carta magna scritta dall’ideologo della dittatura Jaime Guzman. 

Solo analizzando la logica di questa “democrazia possibile” possiamo inquadrare la primavera di proteste cilena di questo mese, che non è stata una tempesta improvvisa in una lunga stagione di sole splendente, ma l’esplosione di una rabbia e delusione che è cresciuta sottovoce negli ultimi anni. 

La protesta degli studenti liceali nel 2006, quella degli universitari del 2011, la continua mobilitazione dei mapuche nel Sud del paese e le proteste contro le grandi centrali elettriche in Patagonia sono stati i primi movimenti tellurici che hanno preparato il terreno per il grande terremoto del 2019. Il processo di stesura della nuova Carta, che inizierà ad aprile del prossimo anno con il referendum per definire i meccanismi dell’assemblea costituente, non basterà da solo per placare il malcontento popolare se non accompagnato da misure concrete nel campo della salute ed educazione pubblica, salario minimo, incentivo per le piccole imprese e una parziale modifica dal sistema previdenziale. 

Il “Cile si è svegliato” è stato uno dei motti della protesta; difficilmente tornerà a dormire.

Pubblicazioni

Vedi tutti

Eventi correlati

Calendario eventi

Corsi correlati

Vedi i corsi
Not logged in
x