23 Ott 2019

La crisi cilena e la fragilità delle nostre democrazie

Disuguaglianze e democrazia

Ci risvegliamo oggi dopo la quarta notte di coprifuoco a Santiago, la capitale di quella che il presidente Piñera ha definito “un’oasi di pace e prosperità” nella turbolenta regione latinoamericana in un’infausta intervista rilasciata al Financial Times poche ore prima dell’inizio del caos. Partiamo con il dire che la rivolta che sta scuotendo Santiago, e più in generale tutto il paese, va ben al di là dell’aumento del costo del biglietto della metro. Quella è stata la scintilla che ha fatto esplodere un malcontento sociale ben più profondo, legato al continuo aumento del costo della vita, alle disuguaglianze esasperate create dal modello economico neoliberale promosso dalla dittatura militare e poi difeso, apportando correzioni cosmetiche, tanto dai governi di destra come di sinistra che si sono succeduti dal ritorno della democrazia nel 1990. Un modello incentrato sulla privatizzazione delle politiche pubbliche più essenziali, quali salute, educazione, pensioni, all’interno del quale attori privati si sono andati a sostituire allo Stato nell’erogazione dei servizi di welfare. Il paradosso del Cile è che il modello ha prodotto i suoi frutti. L’economia cilena è cresciuta velocemente negli ultimi anni, dimostrando una solidità macroeconomica unica in America Latina. Il tasso di povertà è stato ridotto in modo sostanziale dal 1990 ad oggi, passando dal 30% al 6.7% della popolazione, traducendosi in una crescita dei consumi che ha creato l’illusione di un paese sviluppato (il Cile è membro dell’OCSE, il club internazionale dei paesi sviluppati).

Un’illusione appunto. La crescita del Cile, e la stessa riduzione della povertà, si sono costruite sulla compressione dei diritti economici e sociali della popolazione, tollerando insostenibili livelli di disuguaglianza. Il Cile è uno dei paesi più diseguali del mondo, dove l’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza, e il 50% più povero solo il 2%. Ciò è il frutto di un regime fiscale regressivo, in base al quale tutti pagano poche tasse, senza alcuna distinzione tra l’1% e il resto, e la Stato abiura al suo ruolo “equilibratore” di garante del patto sociale.

L’istruzione, tanto secondaria come universitaria, è tra le più costose dell’America Latina, agendo come un potente catalizzatore delle disuguaglianze esistenti invece di promuovere mobilità sociale. Solo l’11% degli studenti provenienti dai settori più poveri della popolazione riesce ad ottenere un titolo universitario, contro l’84% degli studenti più abbienti.

Il sistema di salute pubblica è limitato nella sua copertura e nella qualità delle prestazioni. Il risultato è che prospera un sistema di assicurazioni sanitarie private, costosissime. Lo stesso dicasi per il sistema pensionistico, dato in gestione a compagnie assicurative private, le quali erogano pensioni misere che non arrivano ai 400€ al mese di media. Il privato fa il suo lavoro: generare profitto. È lo Stato che non ha fatto il suo lavoro in Cile: garantire alla popolazione l’accesso ai servizi basilari, garantire quel minimo di equilibrio funzionale alla stabilità politica e sociale del paese.

Tutto questo si inserisce in un quadro di costante aumento del costo della vita nella grandi città cilene, e in particolare nella capitale Santiago, dove negli ultimi anni il prezzo delle case è aumentato del 150%, per non parlare del costo dei servizi, anche quello in ascesa. A questo punto dovrebbe sorgere spontanea una domanda: come può una famiglia cilena arrivare a fine mese in questo contesto? La risposta: si indebita, a livelli insostenibili. L’indebitamento privato in Cile raggiunge il 70% della popolazione (12.6 milioni di persone su un totale di 18 milioni), all’interno del quale oltre 4 milioni sono in stato di mora. In Cile tutto si compra a credito. Questo è il vero grande motore del boom dei consumi, che ha sostenuto per lungo tempo l’illusoria (auto)percezione di un paese di classe media.

In questi dati troviamo la risposta al rompicapo cileno. La profonda crisi che sta scuotendo il Cile non è una sorpresa, o almeno non dovrebbe esserlo. Il paese era da tempo una pentola a pressione pronta ad esplodere. Il gap crescente tra la brillante performance macroeconomica di questi anni e gli altissimi costi sociali del modello ereditato dalla dittatura ha finito per lacerare il patto sociale che stava alla base della transizione democratica cilena. Il patto prevedeva il ritorno alla democrazia in cambio della difesa a oltranza dei pilastri dell’apertura economica, della privatizzazione e di un’idea minimalista del ruolo dello Stato, concentrato sul mantenimento dell’ordine pubblico piuttosto che sulla creazione di un equilibrio sociale.

Ecco, quel patto è andato in mille pezzi, sotto il peso delle disuguaglianze. Ora la classe politica e le élite economiche del paese hanno il difficilissimo compito di aprire un dialogo con quella parte maggioritaria della popolazione che è scesa in piazza, e continuerà a scendere in piazza per chiedere un cambiamento. Non sarà semplice poiché questa volta non sarà sufficiente apportare le ennesime piccole correzioni (più borse di studio, sovvenzioni al trasporto pubblico per gli studenti, etc.). La società chiede un nuovo patto sociale, di riscrivere le regole del gioco e andare oltre il modello costruito nel laboratorio della dittatura militare, le cui ripercussioni sociali si dimostrano incompatibili con le dinamiche democratiche contemporanee.

Sarà capace la classe politica, tanto il governo come le opposizioni, di gestire una così profonda agenda di cambiamento, di riforma strutturale? Speriamo. Se non lo sarà, le proteste continueranno e le fibrillazioni che oggi scuotono la società cilena diverranno ancora più intense. A maggior ragione viste le imminenti incombenze internazionali che vedranno il Cile protagonista in qualità di paese anfitrione del Summit sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite (la COP 25, che avrà luogo a dicembre) e del Summit del Foro per la Cooperazione Economica dell’Asia Pacifico (APEC). Come spesso accade, l’attenzione internazionale può essere un’arma a doppio taglio per un paese sconvolto dalle proteste sociali. A ciò si aggiunge l’instabile contesto regionale sudamericano nel quale si inserisce la crisi cilena, minato non solo dalla crisi venezuelana ma dalle gravi incertezze politiche ed economiche che attanagliano gran parte dei paesi vicini. Le sorti delle turbolente democrazie latinoamericane ci interessano da vicino, molto più di quanto non crediamo, poiché ci raccontano di quanto sia precario l’equilibrio democratico quando viene a mancare il collante della solidarietà sociale, quando la politica non pone un freno al dilagare delle disuguaglianze che erodono il tessuto delle nostre democrazie.

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