17 Mag 2021

Israele: l’instabilità politica continua

Focus Mediterraneo Allargato n.16

Il Likud del primo ministro Benjamin Netanyahu è emerso nuovamente come il più grande partito dal quarto round consecutivo di elezioni (23 marzo 2021) avvenuto in tre anni. Tuttavia, sia Netanyahu che il “Blocco del cambiamento” dei partiti schieratesi contro il primo ministro non hanno ancora un percorso chiaro verso una maggioranza di 61 seggi necessaria per formare una coalizione di governo. Sul piano esterno, a parte il Mediterraneo dove Israele continua a intensificare i propri rapporti diplomatici, si registrano tensioni in altre aree e su questioni d’interesse vitale per la sicurezza e la politica estera israeliana.

 

Quadro interno

Sebbene alle urne, la linea di demarcazione tra i due schieramenti sia rimasta orientata lungo l’asse pro/anti Netanyahu, si sono verificati interessanti cambiamenti nella composizione interna dei blocchi; tali modifiche nella mappa politica derivano esclusivamente dalle relazioni tra altri leader politici e il primo ministro stesso. Con questo si spiega l’eterogeneità dello schieramento anti-Netanyahu, un mosaico di partiti di sinistra, destra e di centro.

Questo ennesimo stallo post-elettorale sottolinea come da un lato Netanyahu non abbia ottenuto la vittoria che sperava, mentre dall'altro i suoi oppositori non sono riusciti a sfruttare i suoi errori nella gestione della crisi del coronavirus per porre fine alla sua premiership. Per un momento era sembrato che il mancato rispetto da parte della comunità ultraortodossa (Haredi) delle regole istituite per fronteggiare la pandemia, con il tacito consenso di un primo ministro dipendente dal sostegno ultraortodosso in parlamento, avrebbe allontanato gli elettori indignati per la sfacciata discriminazione, portandoli a preferire partiti più secolari al pro-HarediLikud. Da ciò si può dedurre quindi come il Covid-19 non abbia avuto un vero e proprio ruolo in queste elezioni, sia in negativo, sia in positivo, annullando l’effetto dell’enorme successo della campagna vaccinale tanto sperato dal primo ministro.

Ma, se il virus ha avuto un impatto, è stato nella connessione senza precedenti tra la comunità araba e il mainstream israeliano, grazie anche alla preminenza del personale medico arabo negli ospedali. Netanyahu, avendo intercettato questa dinamica, per la prima volta ha fatto campagna nelle città arabe, riuscendo anche a rompere la Lista congiunta dei partiti arabi (attirando a sé il partito islamista Lista araba unita, conosciuto come Ra'am) e di conseguenza beneficiando di un calo dell’affluenza alle urne dell’elettorato arabo-israeliano rispetto alle due elezioni precedenti. Detto questo però, sono anche apparse crepe nel tocco magico di Netanyahu verso i suoi fedeli sostenitori del Likud: l’affluenza alle urne nelle roccaforti tradizionali del Likud risulta essere diminuita notevolmente rispetto alle elezioni di un anno fa, portando il partito da 36 seggi a 30.

È comunque possibile individuare chiari vincitori. Primo tra tutti, il leader di Blu e Bianco, l’attuale ministro della Difesa Benny Gantz, che nonostante tutti avessero dato per politicamente finito a seguito della sua controversa decisione a maggio 2020 di prendere parte a un governo di unità nazionale guidato da Netanyhau, ha ottenuto 8 seggi; altrettanto sorprendente sono i risultati del Partito laburista guidato dalla sua nuova leader Merav Michaeli (con 7 seggi), così come il Meretz che in qualche modo è riuscito a sopravvivere aggiudicandosi 6 seggi[1].

Il presidente Reuven Rivlin, in ultima analisi, ha scelto il primo ministro Benjamin Netanyahu per cercare di formare un nuovo governo, poiché ha ricevuto il maggior numero di consensi dalla Knesset. Netanyahu è stato appoggiato da 52 legislatori, mancando di una maggioranza di 61 seggi. I membri del Likud, dello Shas, del Giudaismo della Torah unita e del Sionismo religioso rientrano in questo schieramento, mentre 45 parlamentari (membri di Blu e Bianco, Partito laburista, Israele la Nostra Casa e Meretz) hanno raccomandato il leader di C’è Futuro, Yair Lapid. I sette legislatori di destra hanno invece supportato il loro capo di partito Naftali Bennett, mentre Nuova speranza, la Lista araba congiunta e la Lista araba unita hanno comunicato al presidente di non essere in grado di appoggiare nessuno dei candidati.

I capi dei partiti che cercano di sostituire il primo ministro Benjamin Netanyahu si sono ritrovati disorientati dalle offerte generose che Netanyahu ha proposto loro in cambio di unirsi al suo governo: premiership a rotazione, la fusione delle liste, parità nell’assegnazione dei ministeri. Tale generosità cela molto male astuzia e disperazione, tuttavia, sebbene i motivi alla base di queste offerte siano chiari, l’obiettivo di acuire il disordine tra le fila dei suoi oppositori è stato raggiunto; la motivazione alla base è di impedire ai suoi rivali di raggiungere accordi che consentirebbero a Naftali Bennett o Yair Lapid di ottenere il mandato dal presidente a seguito di un suo eventuale fallimento nel formare una coalizione di governo.

Le due più grandi impasse di Netanyahu sono: l’attuale incertezza di Naftali Bennett di unirsi o meno al suo schieramento e la mancata persuasione di Bezalel Smotrich (capo del partito di destra estrema Sionismo Religioso) a far parte di un governo sostenuto dalla Lista Araba Unita.

Nel frattempo, i negoziati interni al “blocco del cambiamento” tra C’è Futuro di Yair Lapid e il partito di Bennett sono bloccati sulla divisione dei portafogli di ministeri definiti “ideologici”: giustizia, interni, servizi religiosi e istruzione. In ogni caso risultano chiare le difficoltà che possono impedire la formazione di questo “governo del cambiamento” che mostra al suo interno distanze apparentemente incolmabili su questioni centrali, dando luogo anche a profondi dubbi in merito al suo possibile futuro funzionamento.

Lo scorso 4 maggio si è concluso il periodo di 28 giorni a disposizione di Netanyahu per la formazione di un governo e il primo ministro si è ritrovato nella situazione di dover rimettere il mandato nelle mani del presidente Reuven Rivlin. I negoziati intrapresi dal Likud, oltre a essere stati particolarmente frenetici e diretti su diversi fronti, sono stati interrotti proprio sul rush finale a seguito della tragedia avvenuta al Monte Meron, in cui il 30 aprile hanno perso la vita 45 ultraortodossi in una precipitosa fuga di massa durante i festeggiamenti di Lag Ba’omer[2].

Dopo il mancato successo di Netanyahu nei colloqui con i vari partiti, il presidente Rivlin ha aperto le consultazioni con i rappresentati degli schieramenti politici della Knesset, dalle quali è emerso il nome di Yair Lapid come il leader con il maggior numero di raccomandazioni (56 parlamentari su 120) per ottenere dal presidente l’incarico di formare il nuovo governo. I partiti che hanno dato il loro appoggio non sono solamente di centro-sinistra quali C’è Futuro, Blu e Bianco, Meretz e Partito laburista, ma anche di destra come Nuova Speranza e Israele Casa Nostra. Insieme a questi si sono uniti anche cinque su sei parlamentari della Lista araba congiunta.

Likud, Giudaismo della Torah unita, Shas e Sionismo Religioso hanno raccomandato al presidente di restituire il mandato alla Knesset: il blocco di destra ha preso la decisione dopo che Naftali Bennett ha rifiutato di impegnarsi a formare un governo di destra e ha insistito nel continuare i negoziati con tutte le parti. Questa preferenza dello schieramento di Netanyahu significherebbe sostanzialmente la propensione per uno scenario che preveda nuove elezioni, ma a fronte di circa 300.000 elettori in meno che hanno votato al Likud rispetto a un anno fa, risulta essere una scommessa pericolosa.

La principale sfida per Lapid rimane quella di ottenere l’appoggio di Nafatli Bennett e del suo partito Destra per poi convincere i partiti di tutto lo spettro politico ad accettare le linee guida su cui si baserebbe la coalizione: un governo con fazioni di uguale potere e una rotazione al vertice tra Lapid e Bennett. A quanto detto da entrambi, il governo di unità nazionale risulterebbe essere la vera priorità.

La somiglianza quindi con gli scenari in gioco dopo le elezioni del marzo 2020 è notevole, tuttavia questa volta emergono tratti che la differenziano: in primo luogo il fronte anti-Netanyahu questa volta ha un più ampio spettro politico, comprendendo anche tre partiti di destra; inoltre, grazie alla campagna elettorale condotta dal primo ministro si sono create le condizioni ideali che hanno aperto la strada a un possibile governo basato sui voti (o sulle astensioni) dei parlamentari arabo-israeliani, rompendo il tabù sui partiti arabi come membri effettivi del governo.

In sottofondo vi sono altre dinamiche che stanno conferendo un’ulteriore nota d’incertezza al panorama politico e istituzionale israeliano: prima tra tutte, l’inizio della fase probatoria del processo per corruzione di Benjamin Netanyahu, dove è stato ascoltato come primo testimone Ilan Yeshua, l’ex amministratore delegato del sito di notizie Walla. Il processo, aperto pochi mesi fa, dovrà far luce sui tre casi chiamati Caso 1000, Caso 2000 e Caso 4000[3], che vedono il primo ministro sotto accusa per corruzione, frode e abuso di fiducia[4].

In secondo luogo, i sette anni di presidenza di Reuven Rivlin si concluderanno il 9 luglio a mezzogiorno e l’elezione del suo successore deve avvenire alla Knesset entro e non oltre il 9 giugno a prescindere da qualsiasi situazione, anche se il parlamento verrà nuovamente sciolto e anche con un governo provvisorio. L’importanza di questo passaggio di consegne risiede nel grandissimo contributo che il presidente ha apportato nel consolidare il ruolo delle istituzioni israeliane e nella creazione di un dialogo interno che potesse essere condiviso da quelle che ha chiamato “le tribù” in cui è divisa la società israeliana. Con Rivlin uscente, verrà a mancare un punto di riferimento importante in un Israele diviso e polarizzato.

Infine, nell’ultimo mese si è verificata una escalation di violenza a Gerusalemme, che ha visto come protagonisti la polizia, le frange estremiste di destra guidate dal gruppo Lehava e i residenti arabi di Gerusalemme Est. Questa situazione potenzialmente esplosiva è stata creata da una combinazione di eventi e cause, a cominciare dalla chiusura della piazza antistante alla Porta di Damasco da parte della polizia israeliana in coincidenza con l’inizio del mese sacro di Ramadan che ha dato via ai primi scontri. Successivamente, decine di persone sono rimaste ferite a seguito di una marcia di attivisti ebrei di estrema destra giovedì, dopo giorni di crescenti tensioni nella città iniziata come conseguenza ai numerosi video pubblicati su Tic Toc che mostravano aggressioni da parte di ragazzi palestinesi a discapito di passanti ebrei.

Tutti questi elementi portano a sperare in un cambiamento sostanziale nel panorama politico israeliano e, anche se sembrerebbe troppo presto parlare di un’era post-Netanyahu, appaiono presenti degli elementi in questo possibile futuro governo di unità nazionale che potrebbero aiutare Israele a muoversi verso rinnovati orizzonti sociali e politici, come auspicato dal presidente Rivlin in questi ultimi sette anni.

 

Relazioni esterne

Se l’inverno scorso si era chiuso con un bilancio in politica estera decisamente positivo grazie alla stipulazione degli Accordi di Abramo, la primavera 2021 non sembrerebbe aprirsi con i migliori degli auspici. Infatti, eccezione fatta per il Mediterraneo dove Israele continua a incrementare i propri rapporti diplomatici dopo aver firmato con la Grecia il più grande accordo di appalti per la difesa[5], si registra una situazione di tensione acuta riguardante altre aree e questioni d’interesse vitale per la sicurezza e la politica estera israeliana.

Partendo dalla diplomazia internazionale, il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra ha votato il 23 e 24 marzo a favore di quattro risoluzioni contro Israele[6]. Tali risoluzioni sono state approvate includendo la condanna delle attività israeliane nei territori palestinesi e la richiesta dei loro diritti di autodeterminazione. Le altre tre risoluzioni riguardano il punto dell’agenda su “Insediamento israeliano nei territori palestinesi occupati, inclusa Gerusalemme Est e Golan siriano occupato”, per il quale Israele è stato ripetutamente condannato negli anni. La Corte penale internazionale dell’Aja e il Consiglio per i diritti sono tra i due organismi internazionali più processanti per Israele (che non è membro di nessuna delle sue istituzioni) ma, negli anni dell’amministrazione Trump in particolare, Israele ha affrontato queste battaglie diplomatiche insieme agli Stati Uniti. Mentre, l’amministrazione Biden, seppur continui a esprimere il suo sostegno in seno a questi organi, è ben lontana dal fornire un appoggio incondizionato a Israele nei confronti della questione palestinese.

Un segno di questo scollamento è arrivato anche dalla proposta di legge dei senatori Bernie Sanders ed Elizabeth Warren di porre restrizioni agli aiuti militari statunitensi a Israele. Il recente disegno di legge, introdotto da diversi Democratici al Congresso, proibirebbe il finanziamento statunitense di alcune attività israeliane legate all’occupazione. Il fronte che però trova la politica estera del presidente Biden diametralmente opposta a quella israeliana è quello iraniano; infatti, il primo ministro Netanyhau sta facendo adottare alla politica di sicurezza israeliana una postura nei confronti dell’Iran che sta mettendo Israele in rotta di collisione con l’amministrazione statunitense, mettendo in pericolo il paese e i suoi alleati del Golfo.

Ci si riferisce a una serie di mosse tattiche la cui efficacia militare è sminuita dalla minaccia che generano, le più recenti sono: il sabotaggio del sito di arricchimento dell’uranio di Natanz e l’attacco alla nave iraniana Saviz, colpita da una mina nel Mar Rosso, entrambi attributi all’intelligence israeliana.

Nel mese di gennaio 2021 l’esplosione nel sito nucleare iraniano di Natanz ha inferto un duro colpo alla capacità del paese di arricchire l’uranio; questo impianto che si trova nel deserto nella provincia centrale di Isfahan, è il fulcro del programma nucleare iraniano ed è stato monitorato dagli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica. Nonostante la forte opposizione israeliana, l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, è impegnata a rientrare nel Joint Comprehensive Plan of Action se la Repubblica islamica tornerà al pieno rispetto delle restrizioni sulla produzione di combustibile nucleare.

Due anni e mezzo fa, su raccomandazione dell’allora capo di stato maggiore delle Forze di difesa israeliana (Idf), Gadi Eisenkot, la leadership politica decise di aumentare la pressione sull’Iran. Queste operazioni sono state coronate da successo perché l’amministrazione Trump, che era stata messa a conoscenza dei piani, le aveva incoraggiate e ne aveva preservato la segretezza. L’Iran, che inizialmente si è astenuto dal rispondere a queste azioni, dopo il cambio di amministrazione a Washington e con l’avvicinarsi delle elezioni in Iran, ha iniziato a portare a temine piccoli controattacchi, come per esempio il sabotaggio di navi commerciali di proprietà israeliana.

Israele sta conducendo tre offensive simultanee contro l’Iran: la battaglia contro il suo programma nucleare; la battaglia in gran parte aerea contro il trinceramento militare dell’Iran in Siria e il contrabbando di armi in Libano; gli attacchi navali alle navi che contrabbandano petrolio e armi in Siria. Israele ha ottenuto notevoli successi operativi anche sugli altri due fronti, ma sorgono domande sull’intensità e la tempistica dell’ultima azione, verificatasi durante la stessa settimana in cui Europa e Usa hanno iniziato a discutere un nuovo accordo nucleare.

Ulteriori tensioni si stanno riscontrando sul fronte diplomatico giordano. Il primo ministro Benjamin Netanyahu non ha risposto positivamente a una richiesta giordana di acqua a Israele, richiesta fatta a causa della scarsità d’acqua nel regno. Questo rifiuto è avvenuto nonostante le raccomandazioni dei funzionari dell’establishment della difesa di aderire alla richiesta. L’approccio di Netanyahu riflette la profondità della crisi tra Israele e Giordania, parte della quale sembra essere collegata agli attriti personali tra il primo ministro e il re Abdullah. La crisi tra i due paesi si è aggravata negli ultimi mesi, principalmente a causa dell’annullamento della visita di Netanyahu negli Emirati Arabi Uniti. La nuova tensione è iniziata con la proposta di visita del principe Hussein di Giordania a Gerusalemme. Il principe, il figlio di Abdullah, avrebbe dovuto visitare il Monte del Tempio, ma si è creata una disputa sulle disposizioni di sicurezza. Lo Shin Bet si è opposto e i giordani hanno annullato la visita. In risposta, la Giordania ha reagito il giorno successivo non permettendo all’aereo di Netanyahu di sorvolare il suo territorio nel viaggio verso gli Emirati. I funzionari israeliani che sono in stretto contatto con i giordani hanno espresso la loro preoccupazione per le mosse di Netanyahu e per la crescente tensione tra i due stati: la Giordania è infatti un paese di grande valore strategico per Israele perché rafforza il suo confine israeliano con misure di sicurezza aggiuntive, sollevando l’Idf dal dover allocare unità per sventare infiltrazioni o contrabbando di armi. Se Netanyahu recentemente ha affermato che “i giordani hanno bisogno di noi molto più di quanto noi abbiamo bisogno di loro”[7], l’establishment della difesa contesta fortemente questa valutazione e vede la Giordania come un alleato fondamentale per la sicurezza d’Israele.

Nel frattempo, anche nei territori palestinesi adiacenti, le elezioni stanno provocando profonde spaccature. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas, dopo aver indetto per il 22 maggio le elezioni in Cisgiordania per la prima volta dal 2005, ha deciso di rinviare indefinitamente il voto. La motivazione presentata riguarda il mancato consenso da parte d’Israele di permettere ai palestinesi di Gerusalemme Est di partecipare alle votazioni. Gli osservatori, tuttavia, hanno sostenuto che la vera logica risiede nelle lotte intestine nel movimento Fatah di Abbas e la sua impopolarità, che ha sollevato lo spettro della sconfitta ai rivali sia all’interno di Fatah – come Marwan Barghouti e Mohammed Dahlan – che al di fuori di essa, come Hamas. Israele non ha preso pubblicamente una posizione sulla questione del voto dei palestinesi a Gerusalemme Est, dove rivendica la sovranità. Nonostante tutti i loro disaccordi, tuttavia, i governi dell’Autorità Palestinese e di Israele condividono la preoccupazione che un’alleanza di Hamas con una delle fazioni separatiste di Fatah amplierebbe la presenza e l’influenza del gruppo di resistenza islamica in Cisgiordania.

[1]Knesset: The Elections Results, The Twenty-Fourth Knesset (https://knesset.gov.il/description/eng/eng_mimshal_res24.htm)

[2] Il monte Meron nel nord di Israele è il luogo in cui si celebra l’annuale hillula – una celebrazione che segna l’anniversario della morte del rabbino Shimon Bar-Yochai, che cade appunto durante la festa ebraica di Lag ba’Omer. L’evento attira tipicamente decine, se non centinaia, di migliaia di visitatori sul sito della sua tomba, la stragrande maggioranza dei quali ultra-ortodossi.

[3] “The Cases Against Netanyahu and a Decision to Indict”, The New York Times, 28 aprile 2019.

[4] “First witness testifies in Netanyahu trial”, Al-Monitor, 5 aprile 2021.

[5] Come parte dell’accordo, la Elbit Systems Ltd. israeliana gestirà un centro di addestramento per l’aviazione militare greca con un contratto del valore di circa 1,65 miliardi di dollari. L’annuncio ha seguito di un incontro a Cipro tra i ministri degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, greco, cipriota e israeliano, che hanno deciso di approfondire la cooperazione tra i loro paesi.

[6]46th session of the Human Rights Council: Resolutions, decisions and President’s statements, United Nations Human Rights Council.

[7] “As Crisis Deepens, Netanyahu Delays Approving Jordan's Request for Water Supply”, Ha’aretz, 26 marzo 2021.

Pubblicazioni

Vedi tutti

Eventi correlati

Calendario eventi
Not logged in
x