9 Apr 2021

Le notti di Belfast

Gli scontri in Irlanda del Nord

Si riaccendono gli scontri in Irlanda del Nord. Boris Johnson si dice “preoccupatissimo”, ma ad infiammare gli animi c’è la Brexit e il ‘tradimento’ di Downing Street.

 

Mentre il Regno Unito entra in lutto per la morte di Filippo, consorte della regina Elisabetta, morto oggi a 99 anni, in Irlanda del Nord si chiude un’altra nottata di scontri e proteste con decine di feriti e arresti. Per la prima volta da anni, la polizia ha usato gli idranti per disperdere i manifestanti: le violenze hanno provocato 19 feriti, che fanno salire a 74 il bilancio complessivo dei disordini, in corso da dieci giorni, e che coinvolgono principalmente unionisti protestanti e nazionalisti. Ad accendere la scintilla era stata, lo scorso 28 marzo, la decisione della polizia locale di non procedere contro i leader del Sinn Fein, il partito cattolico repubblicano, che l’anno scorso avevano violato le restrizioni per il Covid partecipando ai funerali di un ex capo dell’IRA, l’organizzazione politico-militare che per anni ha combattuto per la causa irredentista irlandese. Ma ad alimentare le tensioni tra i sostenitori dei due principali partiti irlandesi – oggi al governo insieme nonostante siano su fronti opposti riguardo al rapporto con Londra – c’è anche la Brexit. O, meglio, il cosiddetto meccanismo di backstop che ha creato di fatto un confine doganale ‘invisibile’ nel Mare d’Irlanda, tra l’Irlanda del Nord e le altre parti del Regno Unito. Gli unionisti temono che in futuro il confine possa materializzarsi, separandoli dalla Gran Bretagna e trasformandoli in una minoranza (protestante) in un’Irlanda territorialmente riunita a maggioranza cattolica.

 

Good Friday a rischio?

Scene come quelle di questi giorni non si vedevano da anni in Nord Irlanda e riportano alla memoria le violenze dei Troubles, in realtà una vera e propria guerra civile durata trent’anni e costata la vita e 3500 persone. Dagli Accordi del Venerdì Santo che vi posero fine, sono passati 23 anni, ma la società è ancora divisa lungo linee settarie – nonché fisiche, dette “peace lines” – che rischiano di infiammarsi di nuovo. Due settimane fa, i primi a protestare erano stati gli unionisti (o lealisti), perlopiù protestanti e favorevoli alla permanenza dell’Irlanda del Nord nel Regno Unito. La loro rabbia è esplosa quando il capo della polizia, Simon Byrne, ha deciso di non perseguire le circa duemila persone che nel giugno 2020 avevano partecipato al funerale di Bobby Storey, un ex membro dell’IRA, infrangendo le restrizioni in vigore contro il coronavirus. Tra questi c’erano anche 24 membri del Sinn Féin, il partito nazionalista che vorrebbe l’indipendenza dal Regno Unito. Tra chi era andato al funerale c’era anche Michelle O’Neill, esponente del Sinn Féin e vicepremier. La decisione di non perseguire chi aveva partecipato al funerale è stata criticata duramente anche dalla prima ministra, Arlene Foster, del DUP, che ha chiesto le dimissioni del capo della polizia.

 

 

 

Cosa c’entra il backstop?

Ma il disagio profondo dei lealisti covava da mesi e la ragione ultima è l’accordo sulla Brexit. Un accordo che introduce un Protocollo sull’Irlanda del Nord e un meccanismo di backstop per regolare l’entrata e l’uscita delle merci tra Irlanda (Ue) e Irlanda del Nord (extra-Ue) senza ripristinare un confine fisico, come previsto dagli Accordi del Venerdì Santo. Il compromesso prevede di fatto che l’Irlanda del Nord continui ad aderire ad alcuni regolamenti e rimanga all’interno dell’unione doganale europea, in modo da evitare controlli lungo la linea di demarcazione tra Belfast e Dublino, una frontiera aperta e considerata fondamentale per il processo di pace. Le conseguenze pratiche dell’accordo, però, si sono viste subito: le merci in arrivo a Belfast dalla madrepatria sono ora soggette a controlli doganali, il che ha causato penurie nei supermercati e difficoltà burocratiche. Ma soprattutto, i lealisti protestanti vedono messa in discussione la loro identità britannica: e temono che l’Irlanda del Nord possa un giorno riunirsi con la Repubblica di Dublino. Una prospettiva, a cui guarda con favore Sinn Féin che, anche grazie al ribaltamento demografico tra cittadini cattolici e protestanti, vede aprirsi all’orizzonte, a cent’anni esatti dalla separazione, la possibilità di chiedere e ottenere un referendum per la riunificazione dell’Irlanda.

 

Traditi da Londra?

Non si può dire che la questione del confine nord Irlandese fosse stata sottovalutata nei lunghi mesi di negoziato per la Brexit. Nell’accordo di recesso, siglato a novembre 2018 dall’allora premier Theresa May, si cercava di scongiurare il pericolo mantenendo di fatto la GB nel Mercato Unico (con regole pressochè uguali ovunque). Boris Johnson ha invece optato per uscire dal Mercato Unico, rendendo quindi necessari i controlli sulle merci. Quello che accade oggi appare ancor più come un paradosso, dunque, se si tiene conto del fatto che molte delle difficoltà incontrare lungo il cammino della Brexit ruotavano proprio intorno all’esigenza di preservare la pace in Irlanda. Per questo, oggi, il Partito laburista ha incolpato dei disordini e della pericolosa escalation in corso il “vuoto” causato dall’assenza di leadership del primo ministro britannico Johnson, “incapace di proporre all’Unione Europea un’alternativa valida” al backstop. Il governo di Westminister è stato bersagliato anche dalle critiche del ministro della Giustizia di Belfast, Naomi Long, che ha accusato Londra di aver creato “una narrazione tossica, in cui si raccontava ai nordirlandesi che la Brexit ci sarebbe stata ma che non ci sarebbero stati confini a dividere il Regno Unito. E intanto quei confini venivano eretti e oggi a pagarne le conseguenze sono i nordirlandesi”.

Nei giorni scorsi, anche la comunità nazionalista, che finora era rimasta fuori dagli scontri, è rimasta coinvolta in alcuni incidenti e c’è il timore che il minimo incidente possa far sfuggire di mano la situazione. Lo stesso Boris Johnson si è detto “preoccupatissimo” dalle violenze e ha invocato una ripresa del dialogo. A destare timore è anche il coinvolgimento nelle proteste di giovani e giovanissimi su cui i vertici dei partiti – soprattutto unionisti – non sembrano avere più presa. E che restano esposti alla retorica incendiaria dei gruppi più violenti, in un clima di sfiducia e senso di tradimento.

 

Il commento

Di Antonio Villafranca, ISPI Director of Studies

“Gli oltre 70 feriti in una settimana in Irlanda del Nord ci ricordano che Brexit non vuol dire solo successo britannico sui vaccini. Per tenersi stretto il proprio partito – e più libere le mani nelle negoziazioni con il resto del mondo – Johnson ha sacrificato l’Irlanda del Nord. Una dogana la separa oggi dal resto del Regno Unito. Ma il premier rischia di pagare per questa decisione. E alle porte ci sono anche le elezioni in una Scozia sempre più indipendentista”. 

 

* * *

A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

Pubblicazioni

Vedi tutti

Corsi correlati

Vedi i corsi
Not logged in
x