18 Mar 2021

Trade: Regno Unito isolato, colpa di Brexit?

Sono passati meno di tre mesi da quando “Brexit” è divenuta definitivamente realtà in seguito all’uscita de facto del Regno Unito dal Mercato Unico Europeo e dall’Unione Doganale. Gli scenari più catastrofisti, da parte di chi si attendeva che la Gran Bretagna sarebbe rimasta isolata dal continente europeo a causa dell’introduzione delle procedure doganali, non […]

Sono passati meno di tre mesi da quando “Brexit” è divenuta definitivamente realtà in seguito all’uscita de facto del Regno Unito dal Mercato Unico Europeo e dall’Unione Doganale. Gli scenari più catastrofisti, da parte di chi si attendeva che la Gran Bretagna sarebbe rimasta isolata dal continente europeo a causa dell’introduzione delle procedure doganali, non si sono avverati: gli scaffali dei supermercati britannici non si sono svuotati come alcuni temevano (anche per le ingenti scorte effettuate dalle grandi catene di distribuzione prima della fine del periodo di transizione) né si sono verificate code chilometriche di camion al varco della Manica (ad eccezione dei rallentamenti causati dai rigidi protocolli applicati agli ingressi nel Regno Unito e in Francia per contrastare il diffondersi delle varianti del coronavirus rilevato in Inghilterra). Certamente l’aver evitato la caduta nel precipizio – oppure, per dirla come gli anglosassoni, un “cliff-edge scenario” – è dipeso in larga misura dall’accordo raggiunto in extremis alla vigilia di Natale 2020 tra Londra e Bruxelles, che ha contribuito a fornire chiarezza sul quadro generale entro cui si sarebbero iscritti gli scambi commerciali tra l’UE e il Regno Unito. E a rassicurare imprese esportatrici e operatori nei settori della logistica e dei trasporti. Tuttavia, gli scambi bilaterali tra le due sponde della Manica hanno subito un brusco rallentamento a inizio 2021. Tutta colpa di Brexit?

 

Si chiude il “rubinetto” degli scambi commerciali?

Il 12 marzo l’Office for National Statistics (equivalente britannico dell’ISTAT) ha pubblicato i dati relativi al commercio internazionale del Regno Unito, relativi al mese di gennaio 2021. L’ente di statistica ha rilevato un calo significativo delle esportazioni UK verso l’Unione Europea: il 40,7% in meno su base mensile (rispetto a dicembre 2020), che ha fatto il paio con una contrazione del 28,8% delle importazioni dal resto dell’UE. Tra gli Stati europei, quello che maggiormente ha contribuito a far crollare l’export britannico è stata la Germania, che ha ridotto gli acquisti di beni da Londra del 56,2% rispetto al mese precedente, per un valore equivalente di 2 miliardi di euro in meno.

I valori degli scambi commerciali a gennaio sono solitamente più bassi rispetto ai flussi di dicembre (che come è comprensibile tendono a raggiungere il picco annuale), ma il dato registrato a gennaio relativo agli scambi tra Londra e Berlino è il più basso registrato dall’inizio di questo secolo. La riduzione delle esportazioni verso gli altri principali partner UE non è stata così pronunciata come con la Germania, ma ha seguito comunque un trend simile. Confrontando i dati del commercio con l’UE con quelli relativi agli scambi con il resto del mondo, è interessante notare come in questo caso non si sia affatto verificato un calo così drastico: al contrario, l’export britannico verso i Paesi non-UE è cresciuto a gennaio dell’1,7% (ma a fronte di un calo delle esportazioni del 12,7%).

Sarebbe semplice – anche se riduttivo – cercare di spiegare l’accaduto con una sola parola: Brexit. In effetti la situazione per gli operatori economici non è più la stessa di alcuni mesi fa, quando le merci potevano lasciare il Regno Unito senza essere soggette ad alcun controllo, in regime di cessione intra-comunitaria. Nel corso delle negoziazioni, la parte britannica aveva fatto chiaro sin da principio che la permanenza del Regno Unito nell’Unione Doganale era fuori questione, e dunque Londra ha pubblicato il proprio modello di gestione delle dogane sin da settembre 2020, prevedendo un’applicazione graduale dei controlli su determinate categorie di beni. La scelta di scaglionare i controlli sulle merci e documentazione richiesta è stata sin da subito presentata dal governo di Londra come un modo per aiutare gli operatori e addetti del settore ad adattarsi alle nuove pratiche mentre il mondo emerge dalla pandemia da Covid-19.

È notizia recente che Londra abbia deciso unilateralmente di ritardare ulteriormente i controlli doganali, inizialmente prevista per il primo aprile 2020. Si tratta principalmente di un ritardare di sei mesi i controlli sanitari e fitosanitari sui beni in ingresso nel Paese e allungare di altri sei mesi la possibilità di completare le dichiarazioni doganali, e dilazionare i pagamenti. Il governo Johnson ha spiegato che la decisione è stata presa per dare ulteriore tempo alle aziende per adeguarsi alle nuove regole, mentre sono impegnate nella ripresa economica. Se le aziende, associazioni di categoria e spedizionieri hanno esultato, l’UE ha denunciato la potenziale disapplicazione degli accordi sui controlli al confine tra Repubblica di Irlanda e Irlanda del Nord. Dal canto proprio, l’UE ha iniziato ad applicare le procedure doganali e ispezioni alle merci in arrivo da oltre Manica dal 1° gennaio 2021, come previsto.

 

Figura 1

Fonte: ONS

I problemi delle imprese

Il perdurante grado di incertezza e un livello di informazione non sempre ottimale hanno causato difficoltà a molte imprese, le cui operazioni di import/export hanno subito dei rallentamenti. Tuttavia, il nuovo regime commerciale è solo la punta dell’iceberg. Va detto innanzitutto che, da entrambe le parti, tra novembre e dicembre 2020 molti importatori hanno aumentato le proprie scorte di merci per il timore di un “no-deal”, ovvero la mancanza di accordo che avrebbe fatto sprofondare la relazione bilaterale nell’incertezza più totale, facendo scattare l’imposizione di dazi su alcuni beni. Il calo della domanda a gennaio è dunque in parte fisiologico e spiegato dall’accelerazione che si era registrata nell’ultimo trimestre del 2020. Inoltre, non va perso di vista il complessivo quadro congiunturale: dopo un buon terzo trimestre, la seconda ondata pandemica ha influito negativamente sulla performance dei Paesi europei. I nuovi lockdowns imposti a livello nazionale, più o meno ovunque in Europa, hanno contribuito nuovamente a “raffreddare” la domanda di beni di consumo.

Inoltre, il dato positivo dell’export britannico verso i Paesi extra-UE va ridimensionato: si è trattato infatti di un aumento trascurabile e che risente della domanda da aree meno colpite dalla recrudescenza del Covid-19. Infine, non dimentichiamoci che il Regno Unito è in primo luogo un esportatore di servizi, settore che ha risentito di più dell’impatto del Covid-19. In buona sostanza, i dati dell’ONS non vanno sottovalutati e vanno considerati con attenzione non solo da parte britannica, ma anche per il resto d’Europa nell’ottica dell’integrazione commerciale attraverso le supply chains in settori manifatturieri chiave come automotive e chimico-farmaceutico. È però ancora presto per trarre conclusioni definitive sull’impatto strutturale di Brexit, sia per una questione puramente temporale (sono passati solo 3 mesi), ma anche per il perdurare della pandemia e degli effetti sull’economia globale.

 

In cerca di un nuovo posto nel mondo?

Il Governo britannico non ha mai fatto mistero (con Theresa May prima, e tantomeno con Boris Johnson poi) di voler perseguire il progetto Brexit per poter mettere in campo una politica estera (che include anche quella commerciale, sempre più importante nell’economia globalizzata di oggi) più autonoma e indipendente. L’ambizione è alta e consiste nel raggiungere una “Global Britain che possa proiettare il Paese con autorevolezza su tutti gli scenari internazionali. Le Presidenze di turno del G7 e della Conferenza dell’ONU contro il cambiamento climatico possono offrire l’occasione per esercitare influenza a livello internazionale e per affermare valori fondamentali nella visione di Londra quali il libero commercio e il multilateralismo.

La strategia del Regno Unito è stata recentemente aggiornata ed approfondita con il documento Global Britain in a competitive age – The Integrated Review of Security, Defence, Development and Foreign Policy”: una revisione a tutto tondo della politica estera nella quale il commercio internazionale occupa uno spazio molto importante. Nel documento si legge infatti che il Regno Unito intende promuovere a livello globale i valori del libero scambio, ponendosi l’obiettivo di avere “la gestione delle frontiere più efficiente al mondo entro il 2025”. All’interno di questo schema, i rapporti con l’UE hanno un ruolo rilevante, ma l’ambizione è quella di concludere accordi di libero scambio con tutte le regioni del mondo: infatti Londra ha già concluso 66 accordi di continuità commerciale con altrettanti Paesi terzi, replicando in buona sostanza la rete di Free Trade Agreements di cui poteva beneficiare quando era un membro del Mercato Unico Europeo.

Per raggiungere tale obiettivo, tuttavia, è necessario mantenere un ruolo strategico di hub per flussi di  investimenti. Si spiega in questo senso la proposta di istituire otto “porti franchi” sul suolo britannico che permetteranno alle aziende che vi opereranno di affrontare procedure doganali semplificate e di non pagare tasse per i primi cinque anni. La proposta ha suscitato dubbi e perplessità, soprattutto dal lato UE, dal momento che un’eventuale governance opaca di questi “free ports” potrebbe favorire crimini di natura fiscale o riciclaggio. Del resto, Bruxelles sta cercando di porre dei freni alla diffusione di queste iniziative, cui anche l’Italia guarda con favore attraverso l’istituzione delle Zone Economiche Speciali, che prevederebbero però condizioni più blande rispetto al progetto britannico.  Il timore di trovarsi un paradiso fiscale sull’uscio di casa è un’opzione che Bruxelles ha provato a contrastare con vari protocolli d’intesa e cooperazione (ad esempio, sulla gestione dei prelievi fiscali e doganali) con il Regno Unito.

Il rapporto “post-Brexit” con l’UE non sembra essere iniziato nel migliore dei modi: il 15 marzo la Commissione Europea ha annunciato un’azione legale contro il Regno Unito, in risposta alla decisione unilaterale di derogare al protocollo sull’Irlanda del Nord per facilitare gli scambi tra la Gran Bretagna e l’Ulster (attualmente soggetti a controlli per evitare la presenza di un confine rigido sull’isola irlandese tra Belfast e Dublino). Tale azione potrebbe portare il Governo britannico davanti alla Corte di Giustizia Europea e far scattare dazi all’importazione come “rappresaglia” da parte UE per la violazione dei termini dell’accordo TCA (Trade and Cooperation Agreeement con l’UE) e del protocollo allegato sull’Irlanda del Nord. È evidente che l’applicazione dell’accordo di cooperazione faccia da contorno alla naturale competizione che si svilupperà tra UE e Regno Unito nel mondo post-Brexit, e post-Covid.

 

Londra libera di navigare… in un mare tempestoso

Il governo conservatore di Johnson si trova quindi ad affrontare una situazione indubbiamente molto complessa: la gestione dell’uscita dall’UE è stata aggravata dall’emergenza sanitaria e dalla grave crisi economica suscitata dalla pandemia. Va trovato dunque un equilibrio efficace tra gli ambiziosi disegni strategici di medio-lungo periodo e le necessità di breve (anzi brevissimo) termine da parte degli operatori economici che si devono orientare all’interno di un nuovo regime di scambi. Infatti, il progetto della “Global Britain” non potrà essere perseguito a discapito della relazione con Bruxelles. La progressiva uscita dell’Europa dall’incubo del Covid-19 porterà con sé la ripresa economica e contribuirà anche a rivitalizzare l’export britannico verso il continente: ma fino a quel momento, il Regno Unito dovrà navigare in acque “agitate”.

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