Il 17 Dicembre 2010 un giovane ambulante, Mohamed Bouazizi, si dava fuoco in Tunisia in segno di protesta contro la confisca della sua merce e le molestie da parte di alcuni agenti di polizia innescando, inconsapevolmente, quell’ondata di dimostrazioni meglio nota come ‘rivoluzione dei gelsomini’ che avrebbe portato alla caduta del regime ultraventennale di Ben Ali (1987 – 2011) e all’effetto domino in altri paesi in Medio Oriente e Nord Africa.
Le cosiddette ‘primavere arabe’ del 2010-11, il rapido sopraggiungere del loro ‘inverno’ e il parziale revival del 2018-19 che ha coinvolto Sudan, Algeria, Libano e Iraq, hanno rappresentato, indubbiamente, una delle giunture critiche più rilevanti a livello regionale (e internazionale) di questo decennio appena conclusosi.
Dieci anni dopo, le tante zone di luce e d’ombra ci restituiscono un bilancio in chiaroscuro. Nello scacchiere regionale post-rivoluzionario, la Tunisia è, al momento, il solo paese che è riuscito ad evitare lo scivolamento nel caos e nella guerra civile occorso nella limitrofa Libia, o in Yemen e Siria, o il ritorno alla dittatura come in Egitto, confermandosi come unico ‘cantiere’ democratico.
Senza dubbio, numerose sono le conquiste di questa transizione, tutt’altro che semplice o lineare. La nuova costituzione del gennaio 2014, la qualità delle elezioni, la libertà di espressione e associazione nonché la conquista di altri diritti divenuti finalmente sostanziali rappresentano i principali successi democratici. Fondamentale è stata, inoltre, l’attività della Commissione di Verità e Dignità (Instance Vérité et Dignité, Ivd), pietra angolare del processo di giustizia di transizione che, dal 2014 al 2019, ha reso conto nel dettaglio dell’apparato repressivo e predatorio di quasi sessant’anni di regime, quello di Habib Bourghiba prima e di Ben Ali poi.
E proprio a partire da questo storico processo, resta da vedere come e fino a che punto la macchina giudiziaria messa in moto darà riparazione alle vittime, assicurando alla giustizia i responsabili di quelle violazioni dei diritti umani, aspetto tutt’altro che scontato vista l’ostilità e la contro-mobilitazione delle élite politiche ed economiche vicine al vecchio regime, nonché dei quadri securitari. In un contesto in cui lo stato di diritto è ancora lontano dal consolidarsi, la mancanza di un’istituzione fondamentale quale la Corte Costituzionale – sulla cui composizione i partiti politici non hanno mai trovato un accordo – getta un’ulteriore ombra sull’intero sistema di governance.
Alla vigilia del decimo anniversario dalla caduta del suo regime autoritario, i tanti successi dell’esperienza tunisina sono, ancora una volta, offuscati da un pessimismo diffuso ed elevatissimi livelli di tensione sociale. In questo 2020, le misure nazionali atte a fronteggiare la diffusione del Covid-19 nel paese e le pesanti ricadute legate all’interruzione dei flussi commerciali con l’UE – il principale partner tunisino – e delle rimesse degli immigrati, hanno esacerbato criticità preesistenti, a livello economico, sociale e politico. In estate, l’ennesima crisi di governo e le dimissioni dell’esecutivo guidato da Elyes Fakhfakh, a soli cinque mesi dal suo insediamento, avevano posto le basi per la nomina del governo tecnico di Hichem Mechichi che, da settembre, sembra missing in action. Un generale senso di fatica e frustrazione, esasperato dall’immobilità politica, ha portato ad una nuova ondata di scioperi e proteste in tutto il paese. A manifestare non sono soltanto giovani disoccupati o precari nelle regioni più marginalizzate del paese, ma diverse categorie professionali – tra cui magistrati, avvocati e giornalisti – espressione di interessi sempre più parrocchiali e spesso in reciproca competizione.
Se il conflitto all’interno della società politica e delle differenti istituzioni dello stato è stata una constante della traiettoria post-rivoluzionaria, per quanto mitigata o camuffata dalla ‘politica del consenso’ tra diverse élite politiche, le fratture all’interno della società stanno emergendo sempre più distintamente. In un contesto di potere ‘diffuso’ in cui i decisori politici e l’Amministrazione sembrano navigare a vista e con una legittimità in caduta libera, corporativismo e interessi di settore sono diventati fattori chiave di aggregazione sociale e moltiplicazione delle istanze, sovraccaricando così un sistema politico già fragile e poco reattivo. Oltre a paralizzare il paese e raccontare un malcontento diffuso, gli scioperi degli ultimi mesi sembrano mettere a nudo come mai prima d’ora la conflittualità di diverse realtà, svelando la fragilità di quella coesione e unità di intenti raccontata dal motto rivoluzionario ‘il popolo vuole’.
Divari di classe e regionali, prima ancora che generazionali o basati sulla contrapposizione Islam vs laicità, sono problemi strutturali di lunga data, che la Tunisia post-rivoluzionaria non ha minimamente intaccato. Del resto, le proteste e le manifestazioni di questi anni – da Kasserine, a Tataouine, Gafsa e le altre regioni dimenticate dell’interno e del sud tunisino – non hanno fatto che sottolineare il mancato obiettivo di giustizia sociale ed economica che pure era uno dei pilastri delle rivendicazioni del 2010-11.
Oltre alla polarizzazione e all’ascesa del populismo, fa riflettere il diffondersi di una certa ‘nostalgia autoritaria’ che mette in dubbio le conquiste della rivoluzione attraverso la rivendicazione di un passato, mitizzato e destoricizzato, che sarebbe da preferire all’instabilità e all’inefficacia del sistema di governo presente. Tra i nostalgici e i lealisti del vecchio regime, spicca il Parti Destourien Libre (PDL), partito di destra ultra-nazionalista e anti-islamista che, in poco più di un anno, ha più che sestuplicato il suo supporto. Da circa il 6% di voti alle ultime legislative (ottobre 2019), secondo l’ultimo sondaggio dell’agenzia demoscopica tunisina Emrhod di novembre 2020, il PDL ha raggiunto il 38% delle intenzioni di voto. La sua presidente, Abir Moussi, ex dirigente del Rassemblement Constitutionnel Démocratique (RCD) – l’ormai disciolto, almeno formalmente, partito di regime – è in continua ascesa a differenza di altre figure politiche. Attualmente, segue per gradimento il presidente Kais Saied, l’‘uomo nuovo’, estraneo all’establishment politico, che con la sua schiacciante vittoria elettorale aveva suscitato grandi speranze, ancora in attesa.
Da ultimo, è bene ricordare le denunce di varie organizzazioni a tutela dei diritti umani come l’Organizzazione mondiale contro la tortura, Amnesty International o Human Rights Watch circa i casi di tortura, abusi e violenze da parte della polizia, non più sistematici ma ancora pratica diffusa e, molto spesso, impunita. Ancora più allarmante, la pressione e le minacce che le lobby di polizia – uno dei simboli per eccellenza del vecchio regime – hanno esercitato nei confronti di parlamentari e magistrati, tanto per la messa in discussione di disegni di legge a loro crescente tutela che nel caso di processi che vedono coinvolti loro camerati.
Tante sono le sfide che la Tunisia ha davanti, prima fra tutte quella di non cedere alle sirene della nostalgia autoritaria, mantenendo alto il livello di allerta e vigilanza che la società civile ha finora mostrato.