3 Ago 2021

L’implosione del Libano

Un anno dopo l'esplosione

A poche ore dall’anniversario della deflagrazione al porto di Beirut, il Libano appare sempre più sull’orlo del baratro, spinto dalle sue antiche contraddizioni e dalle divisioni domestiche e regionali.

 

Il 4 agosto di un anno fa la tragedia dell’esplosione al porto di Beirut. La detonazione, con una forza pari a un ventesimo di quella della bomba di Hiroshima, sventrò interi quartieri della città e fu tale da causare un terremoto di magnitudo 3.5. I morti furono più di 200, 7mila i feriti, 300 mila gli sfollati. I danni, secondo le stime della Banca Mondiale, pari a 4,2 miliardi di dollari. Oltre alle profonde ferite fisiche, ancora visibili in mancanza dei fondi necessari per la ricostruzione, quel che resta è una cicatrice psicologica sulla città e il paese. La negligenza e non un atto terroristico ha infatti portato allo scoppio delle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio rimaste stoccate per sei anni, senza misure di sicurezza, nell’hangar 12 del porto, infrastruttura chiave dell’economia libanese attraverso cui transita il 90% dell’import del paese.

Dopo quasi un anno però non c’è ancora chiarezza sul fronte delle indagini, ostacolate dalla classe dirigente che si oppone alla revoca dell’immunità per diversi legislatori di alto livello che non possono così essere interrogati. L’esplosione e i suoi resti sono quindi diventati monumento all’irresponsabilità e corruzione della classe dirigente, simbolo del caos politico ed economico in cui versa il Libano. 

Una crisi politica senza fine?

Dalle dimissioni dell’allora primo ministro Hassan Diab una settimana dopo esplosione, il governo del paese rimane provvisorio. Nonostante l’urgenza di fare riforme vitali, dopo 8 mesi di tentativi per formare un governo, il premier designato Saad Hariri ha rimesso il proprio mandato al presidente cristiano Michel Aoun per contrasti con il Movimento Patriottico Libero, il più grande blocco parlamentare cristiano del paese fondato proprio da Aoun. Il mandato esplorativo è ora in mano al secondo uomo più ricco del Libano: il miliardario (2,7 miliardi di dollari di patrimonio netto secondo Forbes) sunnita Najib Mikati. Già due volte primo ministro in passato, Mikati è considerato come un emblema di quel sistema clientelare responsabile del collasso del Paese dei Cedri. Nel 2019, era infatti stato coinvolto in una serie di inchieste per appropriazione indebita e abuso di potere.

Nonostante “non abbia la bacchetta magica e non possa fare miracoli” come detto da lui stesso, dovrà riuscire dove i suoi predecessori non hanno avuto successo: navigare nella struttura settaria dello Stato libanese per trovare un accordo per un esecutivo. Un incarico non semplice, considerando come per legge ognuna delle 17 confessioni debba avere un incarico governativo, statale, militare, o economico. Questo meccanismo permise al Libano di uscire dalla sua guerra civile garantendo una forma di democrazia con pochi paragoni nel mondo arabo. Tuttavia, appare ora come una trappola di indecisionismo per un Paese che non ha più tempo.

 

Un’economia incurabile?

La Banca mondiale stima che quella libanese sia nella top 3 delle peggiori crisi economiche degli ultimi 150 anni. Il sistema bancario è fallito e il paese, un tempo noto come ‘la Svizzera del Medioriente’, con un debito pubblico vicino al 180% del PIL rischia un secondo default finanziario dopo quello del marzo dello scorso anno. Negli ultimi due anni la lira ha perso il 92% del suo valore rispetto al dollaro americano mentre il reddito pro-capite è sceso del 40% e il tasso di disoccupazione è salito al 40%.

Chi poteva permetterselo ha lasciato il paese, mentre quelli che rimangono affrontano la fame e la difficoltà di accesso ai beni di prima necessità. Secondo l’Osservatorio sui prezzi dell’Università Americana di Beirut il costo degli alimenti è aumentato del 700% negli ultimi due anni, mentre gli stipendi sono bloccati ai valori di prima della crisi. Di conseguenza, come riportato dall’Unicef, più della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e non ha accesso sicuro all’acqua potabile. Nonostante questi dati un intervento del FMI è al momento in stand-by dal luglio dello scorso anno per il rifiuto del governo e della Banca Centrale libanese di attuare le riforme richieste dai donatori ufficiali Francia, Regno Unito e USA. 

Chi può salvare il Libano?

All’indomani dell’esplosione, fu proprio il presidente francese Emmanuel Macron, il primo leader straniero a recarsi tra le macerie di Beirut per promettere massicci aiuti e chiedere alla politica libanese un ‘Nuovo Patto’ per la ricostruzione del paese. Ed è sempre opera del presidente francese la nuova conferenza internazionale sul Libano indetta per domani. Al di là del legame storico e culturale che lega i due paesi, dietro l’attivismo francese vi è la volontà di riaffermarsi come garante esterno del blocco filoccidentale in Libano. Parallelamente, l’azione di Macron rientra nella strategia europea per evitare nuove instabilità in un Mediterraneo già pieno di fronti di turbolenza. Non a caso, il Consiglio dell’UE ha adottato questa settimana un quadro di misure restrittive specifiche per il Libano, con la possibilità di imporre sanzioni nei confronti di persone responsabili di contrastare in modo persistente la formazione di un governo libanese. Ma i limiti della influenza francese ed europea sono apparsi subito evidenti quando le fazioni politiche del Libano non rispettarono la deadline di metà settembre da loro richiesta per formare un nuovo esecutivo. Tanto che lo stesso Macron ha dichiarato lo scorso giugno con una certa rassegnazione: “rimaniamo coinvolti nelle vicende del Libano ma non posso sostituire coloro che reggono il sistema con tutti i suoi difetti e i suoi squilibri”.

 

Il commento

Di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor

“Quindici anni di guerra civile, dal 1975 al 1990, non erano stati capaci di distruggere il porto di Beirut e i quartieri limitrofi quanto la sola esplosione del 4 agosto dell’anno scorso. Questa esplosione e i suoi resti sono solo una conseguenza del catastrofico fallimento libanese, l’ultimo monumento all’irresponsabilità della sua classe politica. Una classe politica che avrebbe l’urgenza di fare riforme vitali, ma che quell’urgenza in realtà non dimostra di averla. Intanto il Libano prosegua la sua immersione in una crisi economica senza uscita.”

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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