17 Dic 2020

Dieci primavere: come sono cambiati Nord Africa e Medio Oriente

L'anniversario

Dieci anni fa la morte di Mohammed Bouazizi segnava l’inizio delle cosiddette ‘primavere arabe’. Cosa è cambiato da allora e cosa è rimasto delle rivolte che segnarono la fine di un’era?

 

Sono poche, se non nessuna, le celebrazioni che accompagneranno in questi giorni l’anniversario delle cosiddette primavere arabe. Dieci anni sono passati da quando in Tunisia si levò un vento di protesta che infiammò il paese, propagandosi con un impressionante effetto domino in Egitto, Libia, Siria e Yemen, scuotendo Nordafrica e Medio Oriente da decenni di torpore in nome di libertà e democrazia. Ma cosa resta, dopo una decade, delle cosiddette ‘Primavere Arabe’ capaci di far tremare, quando non di rovesciare, regimi autoritari al potere da generazioni? Una rivoluzione incompiuta se non fallita, nella maggior parte dei casi, sequestrata da apparati militari o annegata in sanguinosi conflitti civili. E oggi c’è chi rinnega la portata rivoluzionaria di quella brezza, cancellata da un lungo inverno di restaurazione, e chi invece rifiuta l’idea che nulla sia cambiato, se non in peggio. Le proteste che nel 2019 hanno portato alla caduta di Omar al Bashir in Sudan e alle dimissioni di Abdelaziz Bouteflika in Algeria, sono lì a dimostrare il risveglio delle piazze della regione. E lenti ma inesorabili cambiamenti innescati da un processo tuttora in corso, la cui omogeneità è solo un effetto ottico di superficie, ma che in realtà varia profondamente da paese a paese.

 

Una rivoluzione tradita?

Il 17 dicembre 2010, Mohammed Bouazizi, un venditore ambulante di Sidi Bouzid, in Tunisia, si diede fuoco in segno di protesta contro le vessazioni della polizia. Morì poco dopo per le ustioni riportate, ma il suo gesto avrebbe risuonato in tutta la regione, dove milioni di cittadini sentivano che si era arrivati ad un punto di non ritorno. La rabbia contro leader oppressivi ed élite politiche corrotte e inadeguate esplose, rovesciato i dittatori in Egitto, Tunisia e Yemen. In quel momento sembrò che per il mondo arabo fosse finalmente arrivata l’ora della democrazia. Mentre le monarchie in Giordania e Marocco ottennero di resistere ai movimenti di protesta, approvavano modeste riforme costituzionali, il governo del Bahrain represse con violenza i moti popolari. Libia, Siria e Yemen scivolarono verso lunghi e sanguinosi conflitti civili e poi in guerre per procura. Sotto lo sguardo indifferente delle democrazie europee e americana, i colpi di una controrivoluzione si abbatterono sulla regione con il un carico di persecuzioni, violenze e abusi, alimentando nuovi e vecchi fenomeni: terrorismo, civili in fuga, flussi di migranti e rifugiati, traffico di esseri umani, diritti calpestati e crisi umanitarie senza precedenti.

 

 

Una nuova primavera?

A distanza di dieci anni, in Medio Oriente e Nord Africa si avvertono distintamente nuovi scricchiolii. Dall’Algeria al Sudan e dal Libano all’Iraq, le piazze hanno ripreso a riempirsi di donne, giovani e attivisti che chiedono riforme, diritti e un passo indietro dell’attuale classe politica. In Sudan, la spinta per il cambiamento ha portato al rovesciamento di Omar al Bashir, al potere da 30 anni e oggi sotto processo per crimini di guerra e violazione dei diritti umani, mentre in Algeria, il movimento Hirak ha ottenuto le dimissioni di Abdelaziz Bouteflika. In entrambi i paesi è in corso un delicato processo di transizione e un difficile negoziato con i militari, ma a differenza di quanto accaduto nel 2011 i rappresentanti delle piazze hanno saputo organizzarsi in modo tempestivo e ordinato, mostrando maggiore compattezza e strategia politica. In Iraq e Libano, i manifestanti hanno sfidato un sistema politico corrotto, inamovibile e parcellizzato su base settaria. Anche in questo caso i manifestanti sembrano aver imparato la lezione dei loro predecessori, sostenendo forme di mobilitazione non-violenta durante i lockdown imposti per fronteggiare la pandemia e resistito alle provocazioni e alla repressione.

 

Proteste inevitabili?

Come già avvenuto nel 2011, i recenti movimenti di protesta hanno colto di sorpresa chi era convinto che regimi autocratici avrebbero garantito continuità. Ieri come allora invece, questi si sono rivelati la prima causa di instabilità. Sono state corruzione, autocrazia, governo fallito, rifiuto della democrazia e abuso dei diritti umani a spingere le persone alla rivolta. E nonostante la loro assertività, la maggior parte dei governi della regione trasmette un senso di insicurezza tangibile. Il governo egiziano soffoca ogni forma di dissenso, la Turchia porta ancora i traumi del tentato golpe del 2016, i governanti iraniani vivono nella psicosi di tentativi di regime-change eterodiretti mentre lottano per sopravvivere alle sanzioni economiche. Anche nel Golfo, dove ci sono stati pochi segni di instabilità interna, si guarda con sospetto a ogni critica. Inoltre la pandemia, il crollo dei prezzi del petrolio e una forte riduzione delle rimesse hanno accumulato nuove e intense pressioni su economie già estremamente deboli. Come osserva Marc Linch su Foreign Affairs “Ulteriori scoppi di proteste di massa sembrano inevitabili. Ci sono semplicemente troppi fattori di instabilità perché anche il più draconiano dei regimi possa rimanere al potere indefinitamente”. Per tutti la lezione del 2011 è ben chiara. Minacce esistenziali – come la democrazia – possono risollevarsi ovunque e in qualsiasi momento.

 

 

Il commento

Di Valeria Talbot, Co-Head Area Mena, ISPI

Dieci anni dopo la morte di Mohamed Bouazizi, non molto è rimasto delle cosiddette primavere.  Se la Tunisia è riuscita con innumerevoli difficoltà a intraprendere processo di trasformazione che però ha di fronte ancora parecchie sfide, in Egitto si è assistito al consolidamento della svolta autoritaria, mentre il perdurare delle crisi in Libia, Siria e Yemen proietta non poche ombre sul futuro di questi paesi. Qui più che altrove la pandemia di Covid-19 e la crisi economica hanno acuito cronici problemi, fragilità e diseguaglianze socio-economiche, gettando i semi di una nuova instabilità. Come trasformare la crisi pandemica in una opportunità di cambiamento e di crescita per l'intera regione è oggi una sfida aperta per i paesi Mena e per l'intera comunità internazionale.

 

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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