15 Dic 2020

Pace “fredda” in Medio Oriente

Dopo gli accordi di Abramo

Il Sudan non è più nella black list americana dei paesi sostenitori del terrorismo. E il Marocco ha ottenuto il riconoscimento della sovranità sul Sahara Occidentale. È l’effetto domino della ‘normalizzazione’ in Medio Oriente?

 

Da oggi il Sudan non figura più nella lista dei paesi sponsor del terrorismo. Lo ha annunciato l’ambasciata americana a Khartoum realizzando una promessa che l’amministrazione Usa aveva fatto in occasione del riconoscimento da parte del paese africano dello stato di Israele lo scorso 23 ottobre. Il Sudan era stato inserito nella lista nel 1993 e nel 1997 era divenuto oggetto di sanzioni. Da allora molto è cambiato. Il presidente Omar al-Bashir è stato deposto con una rivolta popolare lo scorso anno, ed è ora sotto processo. Ma soprattutto, dopo lunghe pressioni da parte di Washington, il Sudan è diventato il terzo paese a maggioranza musulmana a riconoscere lo stato di Israele, dopo Emirati Arabi Uniti e Bahrain e poco prima del Marocco. Successi diplomatici importanti per il presidente americano Donald Trump, che, a poche settimane dalla fine del suo mandato, intende fare degli accordi in Medio Oriente la pietra miliare della sua eredità in politica estera. Si può dunque parlare di ‘effetto domino’, nella progressiva normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi e Israele, e non solo di singole eccezioni? E se di effetto domino si tratta, si fermerà qui – in fondo il Sudan è un territorio dove gli Emirati sono molto influenti e gli altri contraenti hanno ottenuto importanti contropartite in cambio – o continuerà? E in questo caso chi sarà il prossimo? Perfino superfluo notare che il successo più grande sarebbe coinvolgere negli Accordi di Abramo l’Arabia Saudita: se la maggiore potenza sunnita – che custodisce le moschee della Mecca e di Medina – decidesse di riconoscere Israele, sarebbe una novità di enorme importanza per il mondo arabo e musulmano, nonché per l’intera regione. Questa possibilità al momento sembra però più lontana.

 

È vera pace?

Sono veri accordi di pace quelli siglati, sotto l’egida americana, oppure no? In fondo, fa notare Annalisa Perteghella, né gli EAU né il Bahrain erano tecnicamente in guerra con Israele, e anzi la normalizzazione nelle loro relazioni certifica una tendenza in realtà già in corso da tempo. Nella regione, prima di agosto, solo Egitto e Giordania avevano relazioni con Israele, rispettivamente dal 1979 e dal 1994, con il quale condividono una lunga storia di conflitti. Quindi entrambi i paesi avevano molte ragioni pratiche per arrivare a un accordo di pace. Emirati, Sudan e Marocco invece hanno avuto una storia meno coinvolta nel conflitto israelo-palestinese, benché, soprattutto Khartoum e Rabat, abbiano sempre giocato un ruolo attivo nella questione in oggetto. Di fatto, in cambio della normalizzazione, questi paesi hanno ottenuto importanti contropartite. Oltre ad una serie di accordi di tipo economico-commerciali, Abu Dhabi ha avuto accesso all’acquisto degli ultimi aerei da combattimento statunitensi, F-35, mentre per il Marocco è stato il riconoscimento statunitense della sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale. Khartoum, la cui economia è strangolata da sanzioni e isolamento internazionale, ha ottenuto in cambio aiuti alimentari, i fondi necessari a sostenere l’economia in crisi e finanziamenti ai progetti di sviluppo. Il paese africano che aveva teorizzato “i tre no” allo Stato di Israele (no alla pace, no al riconoscimento, no ai negoziati con Israele) durante il vertice della Lega Araba a Khartoum nel 1967, insomma, ha barattato la normalizzazione con la possibilità di uscire dalla black list che gli impediva qualsiasi accordo con organizzazioni internazionali.

 

 

 

Un filo rosso?

Ma se ognuno dei paesi coinvolti nel piano di normalizzazione voluto dall’amministrazione Usa ha avuto i suoi motivi per aderire è pur vero che c’è un filo rosso che collega quanto accaduto in queste settimane fra Abu Dhabi, Manama, Khartoum e Rabat. Nelle intenzioni di chi lo ha promosso, almeno, il disegno strategico è chiaro: Donald Trump intende isolare l’Iran e contenere la Turchia di Recep Tayyip Erdogan, creando un contesto di maggiore stabilità intorno allo stato di Israele man mano che proseguirà il progetto di disimpegno americano dalla regione. In quest’ottica il riallineamento complessivo del sistema di alleanze regionali presenta ancora alcuni ostacoli, primo fra tutti il delicato ruolo dell’Arabia Saudita. Il guardiano dei luoghi sacri dell’Islam e principale potenza sunnita ufficialmente non vuole compiere questo passo finché Israele non accetterà il piano di pace con i palestinesi proposto da Riyadh nel 2002. Ma potrebbe trattarsi solo di una questione generazionale: se questa è la posizione dell’attuale sovrano re Salman, non è detto che il principe ereditario, Mohammed bin Salman (MBS), abbia le stesse riserve del padre. In questo senso, l’incontro segreto tra l’erede al trono saudita e il premier israeliano, lo scorso novembre a Neom, la futuristica città nel cuore del deserto, alla presenza (non confermata) di Benjamin Netanyahu è eloquente. Raramente, nelle complesse vicende mediorientali, un segreto era stato peggio custodito.

 

Palestinesi in soffitta?

In questa logica basata sul do ut des i principali perdenti sono i palestinesi. Abbandonati dai paesi arabi che finora sostenevano (spesso più a parole che nei fatti) la loro causa, essi hanno visto appassire ogni speranza per una soluzione equa del conflitto sotto i colpi del cosiddetto “accordo del secolo”, del piano israeliano di annessione in Cisgiordania e quindi della serie di accordi di Abramo. Se l’attivismo diplomatico americano ha segnato una rottura col passato è stato proprio a loro detrimento: la questione palestinese non è più precondizione obbligatoria per parlare e negoziare con Israele. Se la vittoria di Joe Biden cambierà qualcosa per un rilancio dei negoziati di pace è ancora tutto da vedere. Al di là delle ipotesi, vi è una certezza: la soluzione a due stati risulta sempre meno applicabile. Tra poche settimane saranno il presidente eletto Joe Biden e il Segretario di Stato Anthony Blinken a dover riprendere in mano i dossier mediorientali. E coloro che hanno compiuto passi verso la normalizzazione potrebbero rendersi conto di aver fatto rinunce senza garanzie o che accordi tra potenze regionali sono stati fatti ancora una volta a loro spese. Allora potremmo scoprire che la normalizzazione dei rapporti tra singoli stati è cosa diversa dalla pace in Medio Oriente.

 

 

Il Commento

Di Giuseppe Dentice, ISPI Associate Research Fellow, Osservatorio Mena

Questa serie di intese rappresenta certamente un punto a favore dell’amministrazione Trump, ma non è detto che questo stesso sistema di accordi possa portare ad una reale stabilizzazione dello scenario mediorientale, così ampio ed eterogeneo e, soprattutto, attraversato da numerose fratture e tensioni interne ai singoli stati. In questo senso è evidente come le intese tra Israele ed EAU, Bahrain, Sudan e Marocco, accolgono in pieno le evidenze indirette del progetto americano per la regione: 1) spaccare il fronte arabo; 2) favorire un’interdipendenza tra i paesi vicini a Washington e Tel Aviv, anche attraverso una serie di accordi di sicurezza ed economici; 3) creare un contesto regionale nuovo con il “fronte arabo pragmatico”, primo scudo militare contro i nemici degli Stati Uniti e di Israele (è evidente qui il richiamo alla Middle East Strategic Alliance, meglio nota come “Nato araba”). Benché la forma sarà sicuramente differente, appare alquanto improbabile che la futura amministrazione Biden possa invertire nella sostanza la rotta intrapresa dal suo predecessore.

 

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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