18 Giu 2021

La caduta di Gheddafi e la frantumazione della Libia

Backgrounder

A dieci anni dalle rivolte arabe e dalla guerra di Libia che portò alla caduta del colonnello Muammar Gheddafi è possibile tentare un primo bilancio storico di quegli eventi e porli in relazione con quanto avvenuto in seguito. Non è possibile affermare un nesso causale troppo stringente tra la fine del regime e la successiva guerra civile, nondimeno è innegabile che alcune dinamiche che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare la crisi libica trovino parziale spiegazione nelle convulsioni del periodo delle sollevazioni. Quella che segue non è e non vuole essere la parola definitiva ad una vicenda tanto complessa, non soltanto per la guerra in sé ma anche per la comprensione dei protagonisti, a partire dal colonnello Gheddafi. Un personaggio curioso, sfuggente ed imprevedibile, che forse è possibile definire solo “in negativo”. Come ebbe a dire suo figlio Sayf Al-Islam in confidenza, “mio padre è un uomo diverso ogni giorno”.

 

La ricerca di un dialogo negli anni dell’embargo 1993-1999

Dopo la fine della Guerra fredda, grazie alla pressione esercitata da alcuni paesi europei tra cui il Regno Unito e l’Italia, l’amministrazione Clinton si convinse che fosse possibile, attraverso canali informali, riprendere un timido dialogo con Muammar Gheddafi. In effetti, al di là delle pressioni esercitate dalle famiglie delle vittime della strage di Lockerbie e dagli europei, ulteriori fattori premevano sulla Casa Bianca per un cambiamento di postura. Non soltanto il colonnello aveva fatto sapere di essere disposto a estradare i due principali sospettati della strage ma, all’indomani degli attentati di Al-Qa’ida alle ambasciate americane in Tanzania e Kenya nel 1998, la Libia appariva come un possibile alleato nella lotta al terrorismo. Il regime stava infatti affrontando una offensiva islamista in Cirenaica. Inoltre, le principali compagnie petrolifere statunitensi, ancora legate agli stand-still agreement del 1986, erano ansiose di rilanciare quei contratti prima che giungessero a scadenza. A quel punto, tanto Samuel Berger, Consigliere per la Sicurezza Nazionale, quanto Madeline Albright, Segretario di Stato, aprirono alla possibilità di negoziati segreti con Tripoli. Riaprire il dialogo con la Libia divenne parte di uno sforzo più ampio teso a elaborare una nuova strategia per trattare con potenze non-allineate nel mondo post-bipolare e, al tempo stesso, superare la dottrina del dual containment contro Iraq ed Iran.

 

L’accordo per il disarmo e il rapprochement. Obiettivi, limiti e conseguenze 2003-2008

Poco prima dell’invasione angloamericana dell’Iraq nel marzo 2003, Musa Kusa, capo del Mukhabarat di Gheddafi, contattò l’MI6 e comunicò la volontà del colonnello, che aveva già condiviso informazioni con la CIA sui network africani legati ad Al-Qa’ida dopo l’11 settembre, di rinunciare al suo programma nucleare. Secondo quanto raccontato all’epoca, la fine di Saddam Hussein e dei Talebani avrebbe indotto il regime a capitolare. In realtà la deposizione del rais iracheno avrebbe più semplicemente creato un senso di urgenza rispetto a decisioni che Gheddafi aveva già maturato in precedenza dopo un attento calcolo di costi-benefici e nel contesto dei primi colloqui con i diplomatici americani nel 1999. La rinuncia alle armi nucleari avrebbe infatti permesso alla Libia di tornare come membro legittimo nella comunità internazionale, vedere le sanzioni revocate ed evitare un incombente collasso economico. Nondimeno, il narcisismo di Gheddafi aveva amplificato il senso di claustrofobia prodotto dall’embargo e dalle sanzioni: dopo più di un decennio, il colonnello anelava disperatamente i riflettori e il palcoscenico internazionale.

I limiti dell’accordo del 2003 divennero evidenti negli anni successivi. Come avrebbe in seguito dimostrato anche il caso iraniano, un accordo circoscritto esclusivamente alle questioni militari lasciò l’Occidente esposto ai capricci e ai ricatti di Gheddafi. Dopo tutto il colonnello aveva accettato di smantellare il suo programma di ricerca nucleare, non di aderire ad una serie di obiettivi politico-diplomatici in favore di una distensione omnicomprensiva.

Durante il governo di Romano Prodi (2006-2008), la Farnesina guidata da Massimo D’A­lema riuscì a intavolare i principali punti di una trattativa con la Libia per giunge­re alla firma di un trattato per la normalizzazione dei rapporti. Per il governo di Tripoli l’u­nica condizione che avrebbe reso possibile l’accettazione delle posizioni italiane era che la controparte tenesse fede ai contenuti della Dichiara­zione Congiunta sottoscritta dal ministro degli Esteri Lamberto Dini nel 1998, la quale collegava la nor­malizzazione ad un “Grande Gesto” riparatore. Nonostante sostanziali progressi, il governo riuscì a malapena a elaborare una bozza di accordo e quando Silvio Berlusconi rientrò a Palazzo Chigi, nel maggio 2008, le condizioni internazionali che avevano permesso tra il 2004 e il 2007 di riportare Gheddafi nel consesso delle nazioni erano ormai superate. Per di più, una nuova generazione di politici, tra cui Barack Obama e David Cameron, dimostrò scarsa fiducia quando non vero disprezzo nei confronti di Muammar Gheddafi. Roma sembrò non notare questi mutamenti, oppure li ignorò deliberatamente nel perseguimento dei propri interessi. Questa asincronia tra le ambizioni e gli obiettivi dell’Italia e le condizioni generali del sistema internazionale ha caratterizzato evidentemente buona parte della storia dei rapporti tra Roma e Tripoli. Per Berlusconi, la Libia era concettualmente connessa alla sicurezza di Israele e alla politica africana dell’Italia: da un lato, infatti, il governo voleva sfruttare la normalizzazione dei rapporti con Tripoli come volano per la propria presenza nell’Africa subsahariana, dall’altro legittimare uno dei principali oppositori dell’Arabia Saudita e del Qatar all’interno della Lega Araba. I negoziati per la firma del trattato furono ripresi nell’agosto 2008 e portati avanti in colloqui riservati alla Farnesina da Gianni Letta, sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio, e dal Consigliere di Ambasciata Arturo Luzzi, già in servizio a Tripoli. La firma del “Trattato di Amicizia e Coopera­zione” fra Italia e Libia fu fissata al 31 agosto 2008. Sebbene i contenuti del Trattato fossero più onerosi per l’Italia che non per la Libia, l’accordo sanciva la normalizzazione definitiva dei rapporti tra i due paesi dopo oltre quarant’anni. Il trattato permise a Gheddafi di compiere alcune controverse visite di Stato in Italia e fu invitato da Berlusconi a partecipare, come presidente di turno dell’Unione Africana, al G8 dell’Aquila. A margine di una sessione, il presidente del Consiglio italiano arrivò a forzare una stretta di mano tra Obama e il colonnello. Il Trattato di Bengasi sollevò critiche interne ed internazionali e l’avvicinamento tra Roma e Tripoli venne visto con sospetto. Il nuovo ambasciatore americano a Roma, David Thorne, espresse dure riserve circa le relazioni tra Italia e Libia, un giudizio che, in base a vari cablo diplomatici pubblicati da WikiLeaks, si accompagnava ai timori relativi al rapporto personale tra Berlusconi e Vladimir Putin.

 

La “sindrome della glasnost” e la crisi interna del regime

Il rapprochement degli anni 2004-2007 mise in luce una serie di contraddizioni: primo, Gheddafi era un sopravvissuto della Guerra Fredda e del mondo postcoloniale, ultimo testimone di una generazione di rivoluzionari scomparsa da molto tempo; secondo, sebbene l’accordo del 2003 fosse stato raggiunto in base a una scelta razionale del regime, quest’ultimo diede origine a una serie di problemi che il colonnello non avrebbe potuto prevedere. Di conseguenza, il riformismo di cui il figlio Sayf al-Islam si fece bandiera non fu altro che una cortina fumogena, l’ennesimo espediente inventato da Gheddafi per guadagnare tempo. Tuttavia, le rivolte arabe finirono per accelerare il disfacimento del regime. Le riforme di Sayf si spinsero ben oltre i limiti che l’ala ortodossa, dai Comitati Rivoluzionari ai Servizi di sicurezza, era disposta ad accettare e inoltre garantirono copertura politica a una generazione di sinceri riformisti che sarebbero poi divenuti leader rivoluzionari. Proprio come nella Francia del 1789, nell’Iran del 1979 o nell’Unione Sovietica del 1989, il collasso del regime fu la conseguenza non voluta di un ingenuo tentativo di riformare il sistema per salvarlo. Luigi XVI convocò gli Stati Generali, lo Scià fece concessioni al clero sciita, mentre Mikhail Gorbaciov promosse la perestrojka e la glasnost. Con crudele ironia, ha notato Jason Pack, tutti questi tentativi di salvare i regimi finirono per condannarli. L’infitah (apertura) di Sayf fu un classico esempio di “sindrome della glasnost”: rese evidente che la Jamahiriya non era niente di più che una cleptocrazia paternalista dedita ad autoperpetuarsi e governata con pugno di ferro da una famiglia disfunzionale. Tra il 2009 e il 2010, le premesse per la caduta del regime erano tutte già presenti: aprendosi timidamente, la Libia fu costretta a rispondere a una serie di richieste popolari di giustizia ed equità sociale che fecero intravedere alla popolazione la possibilità di un futuro migliore. Paradossalmente, non fu la repressione a provocare la rivoluzione ma il miglioramento delle condizioni di vita generali. Nel 2011 le prime insurrezioni in Tunisia, Egitto e Bahrein crearono una finestra di opportunità che i cittadini di Bengasi decisero di sfruttare, mossi dalla paura che, se non avessero agito in quel momento, Gheddafi avrebbe presto ripreso il controllo della situazione e l’Occidente avrebbe finito con l’accettare nuovamente lo status quo. A causa della guerra civile scoppiata dopo le rivolte, una certa nostalgia per il regime libico ha iniziato a serpeggiare tra osservatori e politici. Tuttavia, l’osservazione secondo cui la Libia di Gheddafi fosse perlomeno un paese stabile, sebbene non una democrazia, è da ridimensionare; sotto l’apparenza della superficie, la Jamahiriya da tempo non era più in condizione di sopravvivere.

 

Le rivolte arabe e la crisi del potere legittimo dello stato arabo

Le rivolte arabe furono il tentativo di smantellare l’ordine regionale venutosi a creare dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, non di applicarvi correzioni. Le insurrezioni del 2011 rappresentarono, prima ancora che la richiesta di equità, giustizia sociale, riforme e diritti, la crisi definitiva del potere legittimo degli stati arabi. Dopo la caduta di Saddam Hussein, la presenza militare americana in Medio Oriente favorì un ordine regionale che aveva alla base una complessa architettura di sicurezza a protezione degli interessi degli Stati Uniti: proteggere Israele, garantire gli approvvigionamenti energetici in Occidente, combattere il terrorismo e contenere l’Iran. Questo nuovo ordine si rivelò non soltanto incapace di produrre potere legittimo e garantire sicurezza ma anche di essere sostenibile sul lungo periodo. Le autocrazie arabe stavano marcescendo dall’interno, consumate da problemi economici, dalla corruzione, dal degrado delle infrastrutture e dei servizi di base e da una sempre più endemica disoccupazione giovanile. Proprio le generazioni più giovani, connesse grazie alla diffusione delle nuove tecnologie della comunicazione, cominciarono a condividere opinioni e frustrazioni creando uno spazio di dissenso politico unificato e trasversale al mondo arabo. I regimi, prigionieri delle loro dissonanze cognitive, scansarono questi malumori crescenti assicurando l’Occidente, ma soprattutto loro stessi, che la situazione era sotto controllo. La magnitudo delle proteste sconfessò tali illusioni e improvvisamente la possibilità di un cambiamento radicale del panorama politico del Medio Oriente divenne così reale da inasprire le irrisolte contraddizioni del rapporto arabo-americano. Contraddizioni che mutarono in aperto contrasto quando Obama decise di schierarsi con i dimostranti, una scelta che spinse i vecchi regimi a temere per la propria sopravvivenza. Ciò nonostante, invece di promuovere riforme ed andare incontro alle piazze, quest’ultimi si risolsero a promuovere una serie di mal concepite operazioni di politica estera per isolare il Golfo dal contagio rivoluzionario. Queste politiche controrivoluzionarie cozzavano con la richiesta americana di esercitare moderazione e dare perlomeno parziali risposte alle richieste dei dimostranti, aggravando in tal senso il già pessimo rapporto che Obama intrattenne con gli autocrati arabi durante il suo mandato.

Nel 2010 la priorità strategica del presidente era l’accordo con l’Iran, non il contrasto al terrorismo né la sicurezza dei paesi arabi in sé. La percezione psicologica che il paese degli Ayatollah fosse vicino alla “soglia critica” del programma nucleare aveva alimentato infatti un senso di urgenza i cui tempi venivano dettati dal timore crescente che, qualora tale soglia fosse stata superata, Israele o gli stessi Stati Uniti avrebbero dovuto lanciare un attacco preventivo contro le installazioni iraniane correndo il rischio di scatenare una guerra generale. Quell’accordo fu osteggiato dai paesi arabi che più di un Iran nuclearizzato temevano un accomodamento generale tra Washington e Teheran, punto di svolta non solo per la fine del contenimento ma anche per il ritorno del petrolio iraniano sul mercato internazionale e per una diversa postura americana nei rapporti con il mondo arabo. Ciò che all’epoca preoccupò le autocrazie mediorientali al punto da arrivare a nutrire scarsa o nessuna fiducia nei confronti di Obama non fu la possibilità del disimpegno americano quanto il cambiamento di priorità che il presidente segnalava apertamente. Fu pertanto la sfiducia e lo scontro politico tra Washington ed i suoi alleati arabi ad aver alimentato il caos nella regione, non il desiderio degli Stati Uniti di alleggerire i propri impegni in Medio Oriente.

 

La minaccia a Bengasi. La particolarità del caso libico

A differenza di Tunisia ed Egitto, la rivolta in Libia si militarizzò fin da subito. Il fatto che Gheddafi avesse smantellato l’esercito e consegnato le forze di sicurezza al controllo di suoi famigliari o di tribù a lui fedeli rese impossibile una transizione come quella tunisina ed egiziana. Inoltre, se da un lato il colonnello decise di reagire immediatamente facendo muovere i carrarmati, dall’altro i rivoltosi iniziarono a organizzarsi in milizie autonome. La rivoluzione in Libia fu in effetti la somma di una serie di insurrezioni separate che guadagnarono una forza irresistibile unicamente grazie all’aiuto di potenze straniere e all’intervento della NATO. Qatar, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita e Turchia iniziarono a finanziare, armare e addestrare i ribelli e la guerra a Gheddafi divenne la prova generale di quello che sarebbe poi successo in Siria contro il regime di Bashar al-Assad. La Libia fu un tassello di una strategia più ampia elaborata dai paesi sunniti del Golfo per disegnare un nuovo equilibrio di potenza nel Medio Oriente ed edificare un perimetro difensivo che li isolasse dagli effetti delle Rivolte.

Bengasi sarebbe diventata un’altra Srebrenica? Non è possibile saperlo con certezza. La Libya’s Inquiry della House of Commons britannica, meglio nota come “The Crispin Blunt Report”, ha concluso i suoi lavori sostenendo che la minaccia fu presentata con “ingiustificata certezza” e che la strategia del governo inglese fu guidata da “supposizioni errate ed una comprensione incompleta degli eventi”. In effetti l’intelligence occidentale sul terreno era scarsa o pressoché inesistente, la maggior parte delle testimonianze provenivano da dissidenti all’estero e la mancanza di informazioni precise spinse a farsi le domande sbagliate. Sia il Foreign Office sia il Dipartimento di Stato americano, per esempio, non conoscevano l’entità del coinvolgimento degli estremisti nella ribellione né si posero mai il problema di capire perché Bengasi si fosse ribellata e Tripoli no. Ciò nonostante, l’impatto maggiore sul processo decisionale occidentale fu esercitato dal discorso “zenga-zenga” di Gheddafi nel quale, con la retorica del demagogo e del tribuno che gli era propria, il colonnello minacciò di riconquistare le città ribelli ripulendole “strada per strada”. Nonostante la violenza retorica, tuttavia, il regime inizialmente tentò la carta dell’appeasement con i rivoltosi e quando si risolse a riconquistare le città manu militari le truppe furono sì brutali, ma raramente indulsero in veri e propri massacri indiscriminati. Inoltre, come osservano diversi studiosi e lo stesso rapporto Blunt, Gheddafi era convinto che gli insorti fossero soprattutto islamisti e, prima del discorso “zenga-zenga”, aveva rivolto soltanto contro questi gruppi le sue macabre minacce. Non si può poi sottovalutare il ruolo giocato dalla propaganda e, per la prima volta nella storia, dai social-media come Facebook e dai canali satellitari. Il Qatar utilizzò Al-Jazeera come mezzo di propaganda e pressione sull’opinione pubblica internazionale veicolando immagini di fosse comuni, esecuzioni e bombardamenti sulla popolazione civile. È innegabile dunque che molti, in Occidente, fossero genuinamente convinti che Gheddafi avrebbe presto ordinato alle sue truppe di massacrare i cittadini di Bengasi. La retorica, le minacce, il comportamento passato in situazioni simili, il numero dei morti in continuo aumento, tutto spinse all’epoca a credere che i ribelli stessero per essere sopraffatti. Mancanza di intelligence, propaganda, disinformazione e la pressione ad agire fecero il resto. Tuttavia, sebbene Gheddafi avrebbe sicuramente scatenato una spietata repressione una volta riconquistata Bengasi, e le testimonianze raccontano di un’atmosfera simile ai pogrom cosacchi o alle azioni della Gestapo nazista, non è comunque possibile sostenere con certezza che stesse per realizzarsi una Srebrenica mediterranea.

 

Gli Stati Uniti di fronte alla Libia: l’irrilevanza come ragione per intervenire

Dopo essere stato colto alla sprovvista dalle rivolte in Egitto, Barack Obama si convinse che fosse necessario per gli Stati Uniti prendere una posizione rispetto al movimento delle primavere arabe dal momento che un imbarazzato silenzio avrebbe potuto essere scambiato per tacito assenso alla repressione. Al tempo stesso, sostenere le rivolte avrebbe richiesto uno sforzo non indifferente per non stravolgere l’architettura della politica regionale americana: Obama, realista riluttante, dopo un decennio di guerra volle superare la “sindrome dell’11 settembre” riparando i rapporti lacerati con il mondo musulmano, promuovendo il multilateralismo e soprattutto negoziando l’accordo sul programma nucleare iraniano. Egli non pensava infatti di abbandonare il Medio Oriente quanto di riformularne i paradigmi di sicurezza per rendere la presenza dell’America e i suoi interessi più sostenibili sul lungo periodo. Ma le rivolte del 2011, come detto, giunsero per distruggere, non correggere, quell’ordine regionale e gli Stati Uniti videro la Libia come l’unico teatro in cui fosse possibile bilanciare imperativi umanitari con una limitata azione militare. “Non agire per prevenire un massacro avrebbe compromesso la credibilità e la legittimità degli USA”, disse il presidente ai suoi collaboratori, “Avrebbe significato che gli USA erano stati paralizzati dall’esperienza in Iraq e Afganistan, il che era inaccettabile”. La Libia non aveva particolare importanza in quel momento né da un punto di vista di sicurezza, né tantomeno economico, visto che molte major petrolifere avevano già abbandonato il paese nel 2010. La marginalità di Gheddafi divenne la sua più grande debolezza. L’amministrazione Obama temeva inoltre che il protrarsi della crisi libica avrebbe potuto impattare negativamente sulla transizione in corso in Egitto e Tunisia e che un’azione unilaterale anglofrancese sarebbe andata incontro a un quasi sicuro fallimento vista l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione. In quel caso gli Stati Uniti sarebbero stati costretti comunque ad intervenire ma in condizioni assai meno favorevoli. Nella Casa Bianca non ci fu mai una netta divisione tra falchi e colombe, tutti i principali membri del governo concordarono che, di fronte agli eventi libici, fosse ormai necessario prendere una posizione in difesa dei diritti umani senza però sconfessasse l’architettura della politica mediorientale americana. Il supporto della Lega Araba fu decisivo nel favorire l’ipotesi di un intervento e non è inverosimile affermare che questo sostegno fu garantito grazie ad uno scambio tacito: la legittimazione della guerra a Gheddafi in cambio del silenzio sulla repressione che in quel momento stava avvenendo in Bahrein. Quest’ultimo rappresentava infatti il primo tentativo delle monarchie sunnite di erigere un perimetro difensivo per contenere le rivolte.

 

Il catalizzatore anglo-francese

L’intervento francese non può essere spiegato unicamente dalla volontà dell’allora presidente Nicolas Sarkozy di coprire lo scandalo che sarebbe sorto dal presunto finanziamento illecito ricevuto dal regime libico nel 2007 per la sua campagna presidenziale. Le ragioni dell’intervento sono dunque da ricercare in un quadro più ampio ed assai meno univoco. Parigi fu colta impreparata dal movimento delle primavere arabe e la risposta iniziale fu contraddittoria ed incoerente. Di fronte a sommovimenti capaci di sovvertire gli equilibri di un’area strategica come quella nordafricana, la Francia apparve non soltanto confusa ma anche profondamente collusa con quei regimi autocratici che i rivoltosi volevano rovesciare. Il presidente Sarkozy ed i suoi collaboratori trassero a quel punto la conclusione che lo status quo sarebbe stato più destabilizzante del cambiamento e che era ormai cruciale garantire il successo economico e politico della transizione. Sarkozy chiese poi a Jean-David Levitte, suo consigliere per la politica estera, di preparargli una serie di note sul massacro di Srebrenica del 1995. Egli intravide un parallelo tra i fatti del Rwanda e della Bosnia e quelli di Bengasi ed in quei giorni confidò ad Angela Merkel che non sarebbe stato “… un altro Mitterrand. Non sarò il presidente che ha lasciato morire il popolo libico”. Dopo aver perduto l’occasione di incidere sugli eventi tunisini ed egiziani, guidare un intervento in Libia avrebbe permesso alla Francia da un lato di riaffermare il proprio ruolo nella difesa dei diritti umani e la propria leadership europea rispetto a Berlino, dall’altro di cogliere i frutti, ancora acerbi, della transizione politica ed economica. Nondimeno, ad un anno dalle elezioni presidenziali e con un tasso di approvazione in discesa, Nicolas Sarkozy aveva bisogno di un successo internazionale che ne rinsaldasse la credibilità presso l’elettorato. In quelle stesse settimane, diplomatici del Quai d’Orsay inviarono infatti a Le Monde una lettera anonima nella quale criticarono, di fronte agli eventi delle primavere, la “bancarotta morale” della politica estera francese. Ragioni di politica interna tennero dunque il passo a quelle strategiche, forse incidendo in modo determinante sulle stesse. Se a queste motivazioni di fondo possono esserne aggiunte altre esse appaiono più come elementi secondari che possono aver rinforzato decisioni già maturate. Tra questi elementi vi era certamente il desiderio di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento energetico ottenendo una quota maggiore nello sfruttamento delle risorse libiche (incluso l’uranio presente nella striscia di Azouzou tra Fezzan e Ciad), mentre l’ipotesi giornalistica (derivata da una serie di e-mail inviate da Sidney Blumenthal ad Hillary Clinton) di un timore francese rispetto ad un tentativo di Gheddafi di creare una valuta pan-africana in sostituzione del franco CFA, è probabilmente riconducibile alla propaganda antifrancese di Sayf al-Islam.

La posizione del governo britannico di David Cameron durante la crisi libica assomma in sé tanto le contraddizioni francesi quanto le motivazioni americane. Il premier ha ammesso nelle sue memorie che nessuno aveva previsto quanto avvenne e che il Regno Unito fu anch’esso colto totalmente alla sprovvista. Di fronte all’evolversi della situazione, ed in seguito ad una serie di passi falsi molto simili a quelli francesi che dimostravano in modo imbarazzante quanto profonda fosse la collusione con le autocrazie mediorientali, Cameron convenne con i francesi che lo status quo fosse insostenibile e che bisognasse intervenire per evitare che i dittatori riprendessero il controllo a spese dei civili o che le rivolte fossero infiltrate dai jihadisti e la transizione dirottata dagli islamisti. Parimenti, il primo ministro britannico, così come buona parte dei suoi collaboratori, apparteneva a quella generazione per cui la caduta dei regimi comunisti in Europa orientale, così come il genocidio del Rwanda, la guerra in Bosnia e il genocidio di Srebrenica, erano stati esperienze emotivamente formative. Non meno importanti furono le valutazioni di natura più strettamente economica: nel 2007 la British Petroleum (BP) aveva firmato con la National Oil Company (NOC) libica un accordo dal valore di 900 milioni di dollari, il più grande nella storia commerciale della compagnia. Ma al 2011 le operazioni di estrazione, nonostante il governo avesse ceduto al ricatto di Gheddafi e rilasciato uno dei due libici condannati per i fatti di Lockerbie, non erano ancora iniziate. Tuttavia, dopo il disastro del Golfo del Messico nel maggio 2010, costato alla BP 17,7 miliardi di dollari, quel contratto assumeva un valore diverso nell’orientare le decisioni di Downing Street. Non fu il fattore preminente ma con molta probabilità acuì il senso di urgenza con cui vennero prese le decisioni in merito ad un intervento.

 

L’Italia di fronte alla guerra. Dalla difesa passiva all’intervento militare

L’azione italiana attraversò tre fasi diverse: dalla “difesa passiva” (cioè il tentativo di separare il problema politico da quello militare e negoziare da una posizione esterna che favorisse un cessate il fuoco ed una transizione ordinata), alla “partecipazione limitata” (sostegno logistico all’intervento militare, multilateralizzazione dello stesso nella cornice Nato al fine di arginare l’unilateralismo anglofrancese, negoziati tra ribelli e regime attraverso il gruppo di contatto), fino alla “partecipazione attiva” (operazioni di bombardamento).

Dopo la firma del Trattato di Bengasi, l’Italia era diventata un hub per gli investimenti libici in Europa e il suo principale partner economico, la fonte del 20% di importazioni e il 40% di esportazioni. Nel 2010, Tripoli era uno dei maggiori azionisti dell’economia italiana: la Libyan Foreign Bank possedeva il 67,5% di Banca UBAE Spa, il 7,5% di UniCredit e, attraverso il Fondo di Investimento Libico (LIA), il 2% di Finmeccanica, il 7,5% dello Juventus Club e il 2% di ENI e FIAT. Gli investimenti italiani ammontavano a circa 11 miliardi di dollari, la maggior parte dei quali concentrati nella holding di ENI. Proteggere questa grande liquidità era essenziale per mitigare gli effetti della crisi finanziaria e del debito sovrano allora in corso: se i fondi libici fossero stati ritirati, l’impatto per una economia già indebolita sarebbe stato deleterio. Il ministro delle Finanze Giulio Tremonti mise in guardia i suoi omologhi europei circa le conseguenze dell’applicazione di sanzioni nei confronti del regime.

Quando il 17 febbraio iniziarono le insurrezioni, l’Italia cercò immediatamente di isolare le relazioni italo-libiche da quello che stava avvenendo a Bengasi. Almeno fino alla fine di febbraio, Roma dimostrò di non essere intenzionata a scaricare Gheddafi come Washington aveva fatto con Hosni Mubarak e, insieme alla Germania, predicò cautela. Dopo momenti di incertezza, Berlusconi fu però costretto ad ammettere che il regime aveva perso il controllo degli eventi. Osservò poi che la rivolta non riguardava più soltanto i diritti umani ma il pericolo del fondamentalismo islamico, dell’immigrazione clandestina e la minaccia agli interessi commerciali ed energetici italiani. Ciò nonostante, il governo continuò ad opporsi alle sanzioni sperando di poter raggiungere un accordo che non aggravasse la già fragile situazione del paese in un momento di conclamata debolezza: nelle stesse settimane Berlusconi fu accusato di induzione alla prostituzione minorile e concussione e la crisi del debito sovrano pose con drammatica urgenza la necessità di mettere in sicurezza il sistema bancario italiano. Roma decise allora di separare il problema politico da quello militare, negoziando un cessate il fuoco tra le parti per poi aprire colloqui tra il regime e i ribelli in una fase successiva. In questo modo sarebbe stata garantita l’integrità della Libia come stato e gli interessi italiani senza dover impiegare la forza contro il regime. Ma la decisione di Obama di sostenere i ribelli e favorire l’intervento anglofrancese ridusse gli spazi di manovra e la “difesa passiva” divenne insostenibile.

Agli inizi di marzo, il premier demandò la gestione della crisi al ministro Franco Frattini e decise di adottare un basso profilo. Inizialmente Frattini volle continuare a tenere separati il problema politico della transizione da quello dell’intervento militare ma osservò anche che il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti e la nascita del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) rendevano necessario per l’Italia di assumere una posizione meno ambigua. La sera del 9 marzo, il giorno prima che Sarkozy incontrasse delegati dei ribelli a Parigi, Palazzo Chigi autorizzò un’operazione segreta per entrare in contatto con il CNT a Bengasi. Le forze speciali della Marina scortarono il generale Claudio Grazio e l’ambasciatore Pasquale Terracciano verso le coste della Cirenaica. I due emissari furono accolti da uomini dei Servizi italiani che li accompagnarono a un incontro con Mustafa Abdel Jalil (ex ministro della Giustizia di Gheddafi nominato portavoce del CNT), e Mahmud Jibril (ex tecnocrate del regime, sorta di primo ministro dei ribelli). Terracciano e Graziano consegnarono una serie di messaggi da parte del Governo italiano e apparecchiature di comunicazioni cifrate. I contatti con il CNT non si trasformarono immediatamente in un atto di riconoscimento internazionale, quanto nel primo di una serie di tentativi di agganciare entrambe le parti per portarle al tavolo delle trattative. La situazione mutò drasticamente con l’approvazione della risoluzione 1973 da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Non vi fu alcuna pressione da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nei confronti del governo. Importanti esponenti dell’esecutivo, tra cui Gianni Letta, Ignazio La Russa e Franco Frattini concordavano sulla necessità di allinearsi agli alleati (tutti presenti, con il ministro degli Esteri in collegamento telefonico da New York dove si stava votando la Risoluzione 1973, alla riunione di emergenza che si tenne al Teatro dell’Opera di Roma il 17 marzo 2011). Secondo il Quirinale, era interesse italiano “al che il da farsi sul piano internazionale in difesa dei diritti umani e del movimento delle primavere arabe fosse sottratto ad una sortita anglo-francese fuori da qualunque regola comune, ma che si collocasse nel quadro delle direttive Onu e di una gestione operativa atlantica”. Vi erano forse motivi personali di risentimento nei confronti di Gheddafi (soprattutto dopo l’insolenza con cui egli si era presentato al capo dello Stato durante la sua ultima visita in Italia nel 2010) ed il timore che in un momento di conclamata debolezza del paese un atteggiamento di sostanziale neutralità avrebbe finito per scalzare l’Italia da un dossier vitale, ma si tratterebbe tutt’al più di motivi di rinforzo al quadro poc’anzi espresso. Oltretutto, a differenza di quanto avvenne nel 2003 nel caso dell’Iraq di Saddam Hussein, tanto l’opposizione di centro-sinistra quanto l’opinione pubblica apparivano solidamente dalla parte della popolazione libica e contro il colonnello. Le uniche resistenze ad un intervento vennero paradossalmente dalla Lega Nord, presente nella compagine di governo, e dalla Santa Sede. Quest’ultima preoccupata dalla condizione delle comunità cristiane arabe e dal pericolo che esse avrebbero potuto correre qualora la rivolta fosse stata dirottata dalle forze dell’estremismo islamico.

 

La guerra: aspetti strategici e tattici del conflitto

Il 19 marzo la Francia riunì un vertice a Parigi per coordinare l’azione in Libia. Prima dell’inizio del summit, Sarkozy incontrò privatamente David Cameron e il Segretario di Stato americano Hillary Clinton e annunciò che i caccia francesi erano già in volo per lanciare un attacco contro una colonna corazzata del regime in marcia verso Bengasi. Alle 17:45 ora locale, le forze francesi colpirono i carrarmati di Gheddafi dando inizio all’operazione Harmattan. Poche ore dopo cominciò anche l’offensiva americana (Odyssey Dawn) e inglese (Ellamy). La Francia aveva immaginato un’operazione militare sul modello iracheno, una “coalizione dei volenterosi” in cui gli Stati Uniti avrebbero fornito il necessario supporto tecnico ma la guerra sarebbe stata portata avanti da Parigi, Londra e pochi altri alleati. Tuttavia, il Regno Unito dimostrò di non gradire questa ipotesi e favorì la volontà americana di trasferire il controllo della missione alla Nato, dimostrando ancora una volta l’interesse inglese a che interventi di sicurezza restassero ancorati alla cornice atlantica. Il desiderio di Sarkozy di guidare la guerra fu inoltre ostacolato dall’assenza di mezzi delle sue forze armate che, dopo appena una settimana di operazioni, furono costrette a chiedere rifornimenti agli Stati Uniti. Insieme al Regno Unito, l’Italia divenne la più ardente sostenitrice della Nato e minacciò apertamente di riconsiderare l’uso delle proprie basi qualora l’Alleanza non fosse subentrata nella gestione dell’intervento. Frattini spiegò che, al 20 marzo, la “difesa passiva” era stata ampiamente superata: i tre pilastri della politica estera italiana (Onu, Ue, Nato) erano ormai attivamente impegnati nell’imporre il rispetto della risoluzione 1973, fatto che il Governo non poté più ignorare. Roma doveva difendere i propri interessi ma allo stesso tempo applicare il mandato delle Nazioni Unite, un duplice obiettivo da conseguire ottenendo voce in capitolo tanto nelle operazioni militari quanto nella transizione. Inizialmente l’Italia restrinse la sua partecipazione unicamente ai voli di ricognizione, all’illuminazione degli obiettivi e alla logistica. Contemporaneamente, almeno fino alla fine di marzo, Berlusconi e Frattini si adoperarono per un accordo diplomatico con l’aiuto del Nunzio Apostolico di Tripoli, Giovanni Innocenzo Martinelli, e forse anche di Musa Kusa. Berlusconi chiamò Gheddafi e gli propose un esilio in Mauritania al riparo dalla Corte Penale Internazionale. Il colonnello ascoltò a malapena la proposta e si limitò ad accusare Berlusconi di tradimento. “Silvio tu mi hai tradito! Io sono un beduino del deserto. Mai morirò fuori dalla mia tenda!”. Pochi giorni dopo, Musa Kusa, forse l’uomo più importante del regime dopo Sayf al-Islam, fu esfiltrato dai Servizi italiani, consegnato agli inglesi per essere interrogato e poi lasciato libero di trovare rifugio in Qatar.

Il 31 marzo tutte le operazioni militari passarono sotto il controllo della Nato ed ebbe inizio Unified Protector, bersagliando le forze del regime e imponendo tanto l’interdizione al volo quanto l’embargo navale. Nonostante la retorica ufficiale negasse ogni tentativo di regime-change e la Nato si sia attenuta scrupolosamente al mandato affidatole, divenne chiaro che le operazioni militari avrebbero degradato così profondamente le infrastrutture, le forze e i centri di comando e controllo del regime da rendere pressoché inevitabile, seppur indirettamente, la caduta di Gheddafi. Inoltre, i paesi del Golfo, così come il Regno Unito e la Francia, con l’approvazione degli Stati Uniti, avviarono un parallelo programma segreto di addestramento, finanziamento e supporto ai ribelli da una cellula con sede a Parigi, dispiegando successivamente unità di forze speciali e di intelligence sul terreno per illuminare bersagli a terra, migliorare le capacità di comunicazione e coordinamento e superare così il problema della frammentazione degli insorti. In quel momento, le potenze straniere anteposero il pragmatismo alla consonanza ideologica ed all’inizio della guerra finanziarono, armarono e addestrarono quei gruppi e quelle milizie che davano maggiori garanzie di successo. Nella maggior parte dei casi si trattava di gruppi islamisti che avevano fatto esperienza di guerra in Algeria, in Cecenia, in Afghanistan. Solo con la successiva frantumazione del paese e la confessionalizzazione dello scontro in Medio Oriente con la guerra di Siria si ebbe infine un riallineamento di natura ideologico-confessionale.

L’Italia capì che il regime sarebbe presto entrato in agonia e procrastinare indefinitamente un intervento diretto non sarebbe più stato possibile. Berlusconi voleva tenere il paese fuori dalla guerra cercando un equilibrio tra gli obblighi nei confronti degli alleati e una pragmatica cautela che tenesse in considerazione le posizioni della Lega Nord, della Santa Sede ma anche delicate ragioni storiche, tra cui il passato coloniale del paese. “Gli alleati non possono chiederci di più. Abbiamo costruito strade. Ora non possiamo bombardarle!”. Il mutamento di rotta definitivo si ebbe nei giorni precedenti il 25 aprile. Berlusconi ricevette in via riservata a Roma Mustafa Abdel Jalil alla presenza dell’AD di Eni Paolo Scaroni. Il presidente del Consiglio italiano, grazie ai buoni uffici degli americani, raggiunse una sorta di gentlemen’s agreement con Abdel Jalil per garantire la presenza italiana in Libia dopo la caduta del regime. Il sigillo all’accordo venne apposto il 22 aprile con la visita a Roma del senatore John Kerry, emissario di Barack Obama. Quest’ultimo chiamò Berlusconi il 25 aprile ed il premier italiano garantì che l’Italia avrebbe rimosso i propri limiti alla partecipazione militare. Pochi giorni dopo l’Aeronautica italiana iniziò le operazioni di attacco contro le postazioni e le unità del regime libico. Dal 25 aprile al 30 ottobre l’Italia compì “1900 sortite (…) 450 missioni di bombardamento, solo considerando quelle di attacco al suolo contro obiettivi deliberati (310) e quelle di neutralizzazione delle difese aeree nemiche (146), senza contare gli attacchi ad obiettivi di opportunità”.

Durante la guerra Gheddafi fu raramente al comando, preferendo delegare ai suoi figli o ai fedelissimi le operazioni. Il colonnello cadde preda della “sindrome di Hitler nel bunker”, divenne una presenza fantasma e trascorse i suoi ultimi giorni in uno stato maniaco-depressivo, claustrofobico, intrappolato in un labirinto di paranoie, ricordi e tradimenti.

La Libia non era un teatro per cui la Nato fosse preparata e nelle sale operative di Napoli i “targeting officers” adoperarono mappe utilizzate da Montgomery e Rommel durante la Campagna del Nord Africa. Gli Alleati sapevano che il regime aveva trascorso molto tempo a prepararsi nell’eventualità di un attacco esterno, le forze di sicurezza avevano a disposizione decine di bunker e le pessime condizioni metereologiche, insieme al peculiare campo di battaglia desertico, permettevano azioni diversive. Il regime adattò inoltre la propria postura alle severe regole di ingaggio della Nato ordinando alle proprie forze di indossare abiti civili ed utilizzare furgoni senza insegne. Oltretutto, in rispetto della risoluzione 1973 che autorizzava l’uso della forza limitatamente alla protezione dei civili chiunque essi fossero, non vi erano contatti di alcun tipo tra il quartier generale della Nato e le forze ribelli, fatto che rese inizialmente impossibili attacchi dinamici e la designazione di obiettivi da terra.

In agosto Regno Unito e Francia autorizzarono l’impiego degli elicotteri per condurre attacchi dinamici, distruggere le forze di Gheddafi intorno a Brega e allentare così la pressione su Misurata, città strategica per l’accesso a Tripoli, ancora sotto assedio. Le operazioni tuttavia rallentarono al punto da paventare il rischio di una sfibrante guerra di attrito. La Nato decise allora di concentrare le proprie forze sulla liberazione di Misurata per portare l’attacco a Tripoli, centro di gravità del regime. Gli attacchi furono riorientati sul Jebel Nefusa, una catena montuosa che forma un arco intorno alla capitale e che permette di controllare l’accesso a quest’ultima. Proteggendo i fianchi dell’avanzata per evitare ogni contro-manovra, le forze ribelli avrebbero potuto da lì attuare un movimento a tenaglia intorno a Tripoli. A metà agosto gli insorti occuparono Gharyan e liberarono Zawiya, roccaforte utilizzata dai comandanti di Gheddafi per assicurare i rifornimenti da Sabha a Tripoli, isolando così le truppe del colonnello posizionate tra la capitale e Gharyan ed impedendo l’invio di rinforzi alla capitale. A quel punto la strategia del regime divenne quella dell’arrocco. Tuttavia, tagliare la via ai rinforzi e circondare la città era solo la prima parte di un piano operativo, elaborato dal CNT con l’aiuto dei Servizi britannici, che prevedeva di portare contemporaneamente un attacco diretto dal Jebel Nefusa, con la copertura delle forze aeree della Nato, e scatenare una insurrezione all’interno della città grazie a ribelli infiltratisi nei mesi precedenti. L’operazione, nome in codice “Mermaid Dawn”, dal soprannome tradizionale di Tripoli, ebbe successo e la città cadde nelle mani dei ribelli il 20 agosto.

Nei mesi seguenti soltanto le roccaforti del regime di Bani Walid e Sirte continuarono a resistere ad un assedio brutale da parte dei ribelli. L’ostinazione con cui alcuni lealisti continuavano a proteggere uno specifico quartiere di Sirte fece immaginare che in quell’area si nascondessero alti esponenti del regime caduto o lo stesso colonnello. L’arresto di una Amazzone, le tradizionali guardie del corpo femminili di Gheddafi, fece capire che quest’ultimo si trovava nascosto nelle vicinanze. L’intelligence americana si concentrò sull’area indicata, tracciò una telefonata satellitare del colonnello ed inviò le coordinate geografiche ad un drone che intercettò il convoglio che la mattina del 20 ottobre lo stava scortando via da Sirte. La colonna di macchine fu attaccata dal drone e da due jet francesi; Gheddafi, ferito alle gambe, si rifugiò in un canale di scolo finché non fu catturato da un gruppo di insorti della zona. Dopo essere stato brutalizzato da una folla inferocita, un ribelle minorenne gli si fece accanto e lo giustiziò.

 

La frantumazione della Libia tra tribalismo e milizie: la dinamica centro-periferia

L’internazionalizzazione del conflitto ha provocato le fratture che hanno portato alla guerra civile degli anni seguenti. Tuttavia, il collasso della Libia non può essere ricondotto, in modo semplicistico, alla scomparsa di Muammar Gheddafi. Le divisioni interne alle varie comunità libiche sono state da un lato la conseguenza della strategia di contro-insorgenza applicata dal regime durante la guerra, dall’altro il risultato della divisione di città e tribù tra roccaforti rivoluzionarie e lealiste. Come nel 1789, la rabbia divenne zelo rivoluzionario e gli elementi più radicali all’interno degli insorti assunsero una “deriva giacobina” desiderosa di mettere in minoranza l’ala più moderata del CNT. Dopo la caduta di Gheddafi, queste milizie “giacobine” si prefissero di purgare le istituzioni libiche per conformarle a vaghi “ideali rivoluzionari”. Ma alla deriva giacobina seguì una “reazione vandeana” con localizzate contro-rivoluzioni come a Bani Walid, area controllata dalla tribù Warfalla, che ben poco avevano a che fare con il lealismo al passato regime ma molto con il risentimento maturato in seguito all’esclusione dalla politica nazionale. Conseguentemente, fu la natura della guerra a dividere il paese, non il tribalismo o la morte di Gheddafi in sé.

Nel 2011 il regime mobilitò personale individuato all’interno di specifiche comunità o tribù e lo incaricarono di condurre operazioni militari. Questa strategia serviva a galvanizzare il localismo, creando sacche di contro-insorgenza ed isolando non solo le città ribelli dal mondo esterno ma anche i singoli quartieri di quest’ultime. Alla fine, stremate, sarebbero state riconquistate dai carrarmati del colonnello. L’intervento militare della Nato permise invece loro di sopravvivere ma l’isolamento le mantenne al di fuori del coordinamento e delle politiche del CNT, favorendo così l’espansione dei feudi di potere dei consigli locali e delle milizie cittadine che, oltretutto, poterono godere del supporto di potenze esterne. In tal modo esse rinsaldarono la loro presa sulla popolazione agendo come provider di sicurezza ma anche come competitori nella distribuzione e nel controllo delle risorse dello stato. Il potere delle milizie è cresciuto dunque quasi per caso, dal momento che non corrisponde esattamente a nessun confine tribale ma piuttosto alle divisioni artificiali create dalle dinamiche della guerra. Nel momento in cui la minaccia posta dal regime scomparve, le milizie ed i vari consigli locali iniziarono a combattersi tra di loro e quelle fratture divennero le linee di demarcazione di nuovi poteri territoriali.

Secondo l’analista Jason Pack, uno studio approfondito della storia libica dimostrerebbe l’esistenza di un conflitto permanente tra centro e periferia, non tra tribù. Fin dal dominio ottomano, infatti, la dinamica del potere in Libia ha seguito un andamento assai costante intorno ad una periferia che confligge con un centro fino a sostituirsi ad esso, per poi essere a sua volta rovesciata da una nuova periferia. D’altronde, prima del dominio coloniale italiano, i notabili locali rendevano omaggio al governatore di Tripoli ma continuavano ad esercitare un potere reale, legittimo e continuativo in aree dove gli ottomani non possedevano neanche la parvenza di un’autorità. Alla fine della Seconda guerra mondiale la monarchia senussita, legata alle realtà tribali cirenaiche, spostò il baricentro del potere da Tripoli a Bengasie Beida finché, nel 1969, Gheddafi con i suoi Ufficiali Liberi non rovesciò il re gabellando un normale golpe come una rivoluzione. Ma il colonnello deliberatamente non volle creare semplicemente un nuovo centro di potere, piuttosto ne smantellò tutte le istituzioni formali, marginalizzò la Cirenaica, de-tribalizzò la società libica in nome del panarabismo ma distribuì cariche e ruoli sensibili a membri delle tribù a lui più vicine (i Qadhafa, i Magara, i Warfalla) che, guarda caso, provenivano dalle periferie di Saba, Bani Walid e Sirte. Per i successivi quarantadue anni, tanti quanti furono quelli del suo dominio, egli applicò una spietata tattica del divide et impera prevenendo la formazione di un centro di potere rivale attraverso i bizantinismi di un caotico sistema di patronato, corruzione, terrore e potere informale dove l’unica parola che veramente contava era la sua.

Nel 2011 la periferica Bengasi si rivoltò contro Tripoli e solo temporaneamente riuscì a sostituirsi ad essa con il CNT come pretendente al trono. Ma quest’ultimo, nel giro di pochi mesi, finì sotto scacco dei nuovi poteri periferici fioriti durante la guerra e nutriti da essa. Come lo Yemen e l’Afghanistan, la Libia è un paese il cui patrimonio culturale e le ferite storiche non permettono agli attori locali di accettare posizioni subordinate, anche ad un centro che potrebbero tendenzialmente considerare legittimato a governare. La caduta del colonnello ha significato così il ritorno a questa tradizionale struttura di potere: un debole centro in perenne lotta contro una periferia ribelle.

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