IL FUTURO DEL CIBO

SOIA E GEOPOLITICA: VIAGGIO NELLA FILIERA ALIMENTARE CHE STA CAMBIANDO IL MONDO

di Stefano Liberti

“Se nel 2050 si raggiungerà la cifra di 120 miliardi di animali da macellare ogni anno, per nutrirli bisognerà impiegare due terzi delle terre arabili del pianeta”

Qual è il nesso tra un maiale in agrodolce mangiato a Shanghai, un ettaro di foresta che scompare in Amazzonia e un gruppo di profughi che sbarcano sulle coste europee?

Apparentemente nessuno. I cinesi possono continuare a mangiare indisturbati il loro maiale. Ma più ne mangeranno, più il legame diventerà visibile.

In un mondo interconnesso, appare sempre più attuale l’assioma esposto nel 1979 dal meteorologo statunitense Edward Lorenz per cui “il battito di ali di una farfalla in Brasile può causare un tornado in Texas”. Il modello di produzione e commercializzazione degli alimenti, che oggi ha assunto dimensioni globali, ha un impatto non indifferente su equilibri ambientali, economico-sociali e persino culturali in vaste aree del pianeta. E concorre a ridurre sensibilmente i gradi di separazione tra mondi lontani e apparentemente non comunicanti.

Come si arriva dal maiale di Shanghai ai barconi di profughi nel Mediterraneo, passando per il Sud America?

Stefano Liberti

Stefano Liberti

Giornalista

Scrittore e giornalista. Autore di A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti (2008, Premio Indro Montanelli), Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (2011, tradotto in più di dieci paesi) e I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta (2016). Come regista ha co-diretto con Enrico Parenti il documentario “Soyalism”, in cui vengono trattati visivamente gli argomenti di questo longform.

Il Mato Grosso è il laboratorio di una delle più grandi sperimentazioni agrarie dei nostri tempi: la sostituzione di un habitat biologicamente ricco, vario ma poco produttivo, con una redditizia monocoltura destinata al commercio mondiale.

Zoom in: Mato Grosso, estremo ovest del Brasile. Rodrigo Pozzobon è un imprenditore agricolo di seconda generazione. Nato qui, ha visto lo straordinario e repentino sviluppo della regione, insieme alla crescita delle estensioni coltivate. “Viviamo in un posto fortunato: abbiamo il clima e la terra per produzioni che altrove non riescono altrettanto bene”.

Nella foto: Mato Grosso, Brasile. Credits Icaro Cooke Vieira/CIFOR

Questo territorio enorme e pressoché disabitato – novecentomila chilometri quadrati, la superficie d’Italia e Francia messe insieme, per una densità di tre persone a chilometro quadrato – è il punto di partenza di una catena di produzione alimentare che si dipana in tutto il pianeta ed è alla base della dieta di gran parte della popolazione mondiale. “Produciamo un alimento che sfama il mondo. Tutta la nostra economia è basata su quest’unico prodotto: la soia”.

Il “legume dei miracoli” coltivato qui attraversa terre, oceani e continenti per essere consumato in Cina e in Europa, non direttamente dagli esseri umani ma dagli animali d’allevamento. I mangimi con cui viene alimentato il bestiame chiuso nei capannoni sono sempre costituiti da un 20 per cento di questi semi oleosi, che in gran parte provengono dal Sud America (l’altro grande produttore sono gli Stati Uniti). Il maiale in agrodolce del signore di Shanghai o il panino al prosciutto dello studente di Milano hanno una componente tanto invisibile quanto imprescindibile: la soia. E quella soia ha altissime probabilità di venire da questa regione lontana dell’ovest brasiliano.

Il boom del legume bianco ha portato a una profonda trasformazione di questo territorio. Un tempo l’area era coperta dal cerrado, una savana di alberi e arbusti nota per la sua biodiversità. Oggi, la “foresta spessa” (“mato grosso” in portoghese) non esiste più. Rasa al suolo, ha lasciato spazio a monocolture che si estendono a perdita d’occhio.

La grande metamorfosi è avvenuta non molto tempo fa. È negli anni Ottanta che il governo brasiliano, grazie al lavoro di un importante istituto statale di ricerca agraria, è riuscito in quello che è stato denominato il “miracolo del cerrado”: trasformare questo territorio inospitale e inadatto all’agricoltura nel centro nevralgico del proprio modello di sviluppo agro-industriale. “Tutto qui era foresta”, conferma Pozzobon, intrecciando i ricordi della sua infanzia con la realtà odierna dell’impresa da lui diretta, che controlla diverse migliaia di ettari.

Il Mato Grosso è il laboratorio di una delle più grandi sperimentazioni agrarie dei nostri tempi: la sostituzione di un habitat biologicamente ricco, vario ma poco produttivo, con una redditizia monocoltura destinata al commercio mondiale.

Nota al grande pubblico soprattutto come sostituto proteico della carne nelle diete vegetariane, la soia è paradossalmente uno degli elementi imprescindibili degli allevamenti intensivi. Il 70 per cento della produzione mondiale di questo legume finisce nei mangimi per il bestiame allevato industrialmente. Lo sviluppo delle monocolture che dominano il paesaggio è andato di pari passo con l’aumento del consumo di carne a livello globale.

La crescita della produzione di soia appare vorticosa: dai 32 milioni di tonnellate del 2000 ai 117 milioni del 2017. Solo nel Mato Grosso, si è passati dai 3 milioni di ettari del 2000 agli attuali 7 milioni.

In un’area dell’America Latina soprannominata la “Repubblica unita della soia”, che comprende parti del Brasile e dell’Argentina, l’Uruguay, il Paraguay e l’est della Bolivia, gli ettari destinati alla coltivazione di questo legume sono 46 milioni, una volta e mezza l’intera superficie dell’Italia.

Per dare un’unità di misura, se nel 1950 la produzione mondiale di soia era pari a 16 milioni di tonnellate, oggi è pari a 22 volte quel valore: 352 milioni. Nello stesso periodo, il grano, il mais, il riso – elementi fondanti dell’alimentazione mondiale – hanno conosciuto incrementi dell’ordine di tre o quattro volte.

Possiamo aumentare ulteriormente la produzione. C’è ancora tanta terra disponibile”, afferma senza esitazioni Sergio Mendes, direttore generale dell’Associação Nacional dos Exportadores de Cereais (Anec), organizzazione-ombrello delle aziende che commercializzano soia e mais. L’uomo mostra su una carta geografica le potenzialità di crescita del settore, le possibilità di espansione, il reticolo di infrastrutture che potrebbero crearsi per facilitare le esportazioni. “Siamo il granaio del pianeta”, aggiunge entusiasta. “Il mondo chiede soia e noi abbiamo la terra e le condizioni per soddisfare questa richiesta”.

“Siamo il granaio del pianeta. Il mondo chiede soia e noi abbiamo la terra e le condizioni per soddisfare questa richiesta”

L’affermazione di Mendes è incontrovertibile: il mondo chiede soia. E in effetti gran parte della soia che viene prodotta in Mato Grosso non rimane nel paese, ma finisce ai quattro angoli del globo. Una volta raccolta nei giganteschi silos che punteggiano le strade dello stato, viene trasportata su camion verso i porti sull’Oceano Atlantico, a duemila chilometri di distanza. Lì è caricata su navi cargo che prendono due direzioni: il porto di Rotterdam, in Olanda, punto d’ingresso per il mercato europeo o, sempre più massicciamente, il canale di Panama verso l’Oceano Pacifico e i porti cinesi. Dei 117 milioni di tonnellate prodotte nel 2017, 54 milioni sono partite in direzione della Cina, 14 milioni sono finite in Europa.

La recente guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina rischia di accelerare ulteriormente questo processo. Da quando, nel luglio 2018, l’amministrazione di Donald Trump ha elevato dazi doganali nei confronti di varie merci in provenienza dalla Cina, il governo di Pechino ha reagito imponendo un dazio del 25 per cento sulla soia statunitense. La mossa ha immediatamente sortito i suoi effetti: nel novembre 2018, per la prima volta da vent’anni la Cina non ha importato un singolo seme di soia dagli Stati Uniti (nello stesso mese dell’anno precedente ne aveva importati 4,7 milioni di tonnellate). Così, Pechino ha aumentato le importazioni dal Brasile, esaurendo tutte le scorte e spingendo gli imprenditori agricoli del Mato Grosso e degli altri stati vicini ad aumentare la produzione. Se a dicembre le due amministrazioni hanno stabilito una tregua nella “guerra dei dazi” per negoziare – e la Cina di conseguenza ha ricominciato a importare soia dagli Usa – c’è già stato sul terreno un visibile “effetto chiamata” sui produttori brasiliani, che hanno incrementato ulteriormente le coltivazioni. Per stare al passo con le crescenti richieste, negli ultimi anni la frontiera agricola brasiliana si è spostata decisamente verso nord, inghiottendo tutto il Mato Grosso e rosicchiando parti importanti della foresta amazzonica. Nel cuore del polmone del mondo si cominciano a vedere le stesse estensioni a monocoltura che sono da anni paesaggio ricorrente un po’ più a sud. Sul Rio delle Amazzoni sono stati costruiti diversi terminali portuali per l’esportazione, che permettono di evitare la tortuosa via stradale. Ognuno dei principali gruppi di trader ha costruito il proprio porto, da cui gestisce direttamente il deflusso delle tonnellate di soia che compra dai produttori.

Il nuovo oro bianco fa la fortuna degli imprenditori come Pozzobon ma anche e soprattutto di quelle aziende trader che ne gestiscono la commercializzazione – le statunitensi Cargill, Archer Daniel Midland, Bunge e la francese Louis Dreyfus, a cui si sono aggiunte negli ultimi anni il conglomerato cinese di stato Cofco e la brasiliana Amaggi, di proprietà della famiglia di Blairo Maggi, ex governatore del Mato Grosso ed ex ministro dell’agricoltura del Brasile. Questi sei gruppi controllano oggi il 57 per cento delle esportazioni di soia brasiliane.

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Porzione delle esportazioni di soia brasiliane controllate da soli 6 gruppi

Ma, al di là dei proclami trionfalistici di Sergio Mendes e dei profitti miliarda-ri delle aziende trader, il turbo-sviluppo agro-industriale di queste zone non è avvenuto senza conseguenze. Il “miracolo del cerrado” è stato reso possibile da un uso intensivo di agrofarmaci di sintesi, che hanno avuto un impatto non indifferente sull’ambiente. “È stato commesso un vero e proprio crimine dal punto di vista agronomico. Hanno adattato la soia a un’area tropical-umida che non era adatta e per farla crescere hanno portato urea, nitrati e fosfati da fuori, perché qui la natura non offriva questi elementi. Il Brasile è diventato il primo consumatore al mondo di fertilizzanti e pesticidi. È un errore che creerà squilibri in natura a breve termine – oltre naturalmente alla perdita di biodiversità”, sottolinea João Pedro Stedile, portavoce e fondatore del Movimento dos Trabalhadores Rurais Sem Terra (MST), che si batte per il sostegno ai piccoli agricoltori. Senza contare che la distruzione del cerrado e la graduale deforestazione dell’Amazzonia giocano un ruolo non secondario sui cambiamenti climatici e sul riscaldamento globale: quando si abbattono gli alberi non si riduce solo la capacità di immagazzinare CO2, ma si rilasciano al contempo ingenti quantità di anidride carbonica nell’atmosfera.

“Il 19 per cento della foresta è già scomparso!”

Negli ultimi anni, diverse organizzazioni hanno cercato di porre un freno al processo, denunciando le conseguenze ambientali di questo modello di sviluppo. “Il 19 per cento della foresta è già scomparso!”, esclama preoccupato Romulo Batista. Seduto di fronte a una mappa nel suo ufficio di Manaus, il responsabile di Greenpeace Amazzonia mostra il cosiddetto “arco di deforestazione”: in rosso sono indicate le aree che una volta erano foresta e che sono state rase al suolo. “In questo arco di territorio disboscato, che abbraccia tutto il sud dell’Amazzonia brasiliana, il 62 per cento è destinato alla produzione di soia”. Qualche anno fa è stata proprio Greenpeace a lanciare una campagna che si è rivelata particolarmente efficace: travestiti da polli, gli attivisti dell’organizzazione ambientalista sono entrati in vari ristoranti McDonald’s in giro per l’Europa, si sono incatenati alle sedie e hanno lanciato il messaggio: “Ogni volta che mangi i tuoi Chicken McNuggets stai portando via un pezzo di Amazzonia”.

“Quella campagna shock si è rivelata vincente”, racconta Batista, che sottolinea come subito dopo sia stata firmata la cosiddetta moratoria sulla soia, che ne impedisce la produzione su aree di recente deforestazione. “Da allora, l’aumento della deforestazione dovuta direttamente alla produzione di soia è stato solo dell’1 per cento”. Ma la moratoria non impedisce che si coltivi su aree disboscate precedentemente per altri usi: legname o pascolo. Le cifre parlano da sole: dal 2006, anno in cui è entrato in vigore il testo, la produzione del legume bianco nella regione amazzonica è passata da 2 a 3,6 milioni di ettari.

“Ogni volta che qualcuno mangia un Chicken McNugget potrebbe mordere un pezzetto di Amazzonia”

Greenpeace

L’elezione alla presidenza del Brasile di Jair Bolsonaro, espressione dei gruppi più vicini agli interessi dell’agri-business e che più volte si è pronunciato in favore di una maggiore flessibilità nei vincoli ambientali, non promette nulla di buono per il futuro della più grande foresta pluviale del mondo: appena ha preso funzione, il 1° gennaio scorso, il neo-presidente ha promosso una serie di regolamentazioni in favore degli interessi dei grandi produttori.

Al di là dei suoi effetti sul terreno, la campagna di Greenpeace coglieva un punto fondamentale: la grande crescita di produzione di soia è indissolubilmente legata all’aumento del consumo di carne in Occidente e in paesi come la Cina. La consequenzialità proposta dalla Ong ambientalista è chiara: ogni volta che ognuno di noi mangia un Chicken McNugget sta provvedendo in qualche modo alla deforestazione dell’Amazzonia e all’aumento del riscaldamento globale.

Il rapporto tra allevamenti intensivi e grandi monocolture è sinergico: gli uni non potrebbero esistere senza le altre e le seconde non ci sarebbero senza i primi. Tony Weis, professore di geografia all’università di Western Ontario e autore del libro “The Ecological Hoofprint. The Global Burden of Industrial Livestock”, parla in proposito di “grain–oilseed–livestock complex”, considerando l’insieme di “cereali-semi oleosi-animali d’allevamento” come un unico aggregato di produzione industrializzata. “Gli allevamenti industriali sono come isole in mezzo a tanti oceani di soia e mais”, riassume lo studioso con un’immagine eloquente.

Sviluppatosi in modo massiccio nel secondo dopoguerra, l’allevamento intensivo ha permesso di fare economie di scala e concentrare molti più animali in spazi più ristretti. La produzione di carne è passata così dai 71 milioni di tonnellate nel 1961 ai 323 milioni di tonnellate del 2017. E il numero di animali allevati è letteralmente esploso. “Oggi sul pianeta vengono uccisi ogni anno 70 miliardi di animali per il consumo alimentare. Nel 1960, questa cifra era sette volte inferiore. Se il consumo di carne segue l’attuale traiettoria, nel 2050 verranno uccisi 120 miliardi di animali d’allevamento all’anno”, sottolinea Weis.

“Nel 2050 verranno uccisi 120 miliardi di animali d’allevamento all’anno”

Questa produzione industrializzata e massiccia ha trasformato in modo radicale il concetto stesso di allevamento: da quando è cominciata la loro domesticazione, nell’antica Mesopotamia, gli animali sono sempre stati parte integrante di un sistema organico e interdipendente con l’agricoltura. Pascolavano sui campi e li rivitalizzavano concimandoli con il loro letame. Si trattava di un tipico esempio di quella che oggi definiremmo “economia circolare”. L’allevamento intensivo è invece un classico caso di economia lineare industriale, che consuma carburante e produce scarti. Gli scarti sono i liquami animali, che non possono essere usati come concimi perché sono troppo concentrati in alcuni luoghi e pertanto devono essere smaltiti. Il carburante sono quelle immense quantità di soia e cereali utilizzate per alimentare il bestiame. “Oggi un terzo delle terre arabili è occupato da queste colture destinate ai mangimi animali”, sottolinea ancora Weis.

Nella foto: liquami di scarto di una fattoria in North Carolina.

Si tratta di una tendenza storica, che si ripete in modo simile ovunque: l’incremento dei redditi e lo sviluppo dei ceti medi porta all’aumento del consumo di proteine animali. È accaduto in Occidente nel secondo dopoguerra e sta accadendo oggi in altri paesi, più popolosi, con importanti tassi di crescita. Se analizziamo i dati del consumo pro capite disaggregandoli per regioni, vedremo che dal 1961 a oggi in Europa Occidentale si è passati da 50 a 80,6 chili medi l’anno a persona, negli Stati Uniti da 89,2 a 120,2 chili l’anno, in Cina da 4 a 58,2 chili l’anno. Proprio questa crescita turbinosa di consumi nel gigante asiatico ha causato la fortuna – o la sfortuna, a seconda dei punti di vista – delle produzioni intensive in Brasile e in tutto il Sud America.

Oggi la Cina è il principale paese importatore di soia al mondo, con il 60 per cento del totale. Il secondo sono i Paesi Bassi, con il 3 per cento.

“È assurdo produrre tonnellate di soia in Brasile per darle da mangiare a polli o suini in Cina! I cinesi non potrebbero allevare i propri maiali senza la nostra soia?”, chiede polemicamente João Pedro Stedile. Ma in effetti la risposta alla domanda del portavoce dell’MST è no. La Cina non dispone di sufficienti terreni coltivabili per produrre la soia e il mais necessari a sfamare la crescente popolazione animale presente nel paese: meno del 13% del territorio cinese è arabile.

“Negli ultimi quindici anni, Pechino ha sostenuto un processo di industrializzazione della produzione di carne, favorendo la costruzione di grossi allevamenti intensivi sul modello occidentale”, sostiene Mindi Schneider, esperta di agribusiness e docente all’Institute of Social Studies dell’Aja, in Olanda. Questa studiosa statunitense ha trascorso anni ad analizzare lo sviluppo del settore suinicolo in Cina e ha scritto una serie di rapporti scientifici che la annoverano tra i massimi esperti occidentali in materia. Nel suo ufficio nella cittadina olandese, corredato da statuette di maiali di ogni forma e dimensione, spiega i risultati delle sue ricerche sul campo. “Oggi nel paese asiatico sono allevati ogni anno 700 milioni di capi, la metà di tutti i suini del mondo. Per sfamarli, il governo ha fatto una precisa scelta: liberalizzare le importazioni di soia”. Per importare il legume, la Cina attinge dal Sud America e dagli Stati Uniti. E non è escluso che in futuro cercherà di approvvigionarsi anche altrove, accelerando lo sviluppo di nuove monocolture in altre aree del pianeta.

Alla base di molti fenomeni di cosiddetto “land grabbing”, accaparramento di terre da parte di grandi gruppi privati, soprattutto in Africa sub-sahariana, c’è proprio la volontà di produrre soia da esportare verso il redditizio mercato cinese. In Mozambico il progetto ProSavana – una cooperazione tripartita tra il governo locale, l’agenzia di cooperazione giapponese e quella brasiliana – è stato lanciato con l’obiettivo dichiarato di replicare l’esperienza del Mato Grosso nel corridoio di Nacala, un’area di 14 milioni di ettari nel nord del paese. Scontratosi con l’opposizione dei contadini locali, il progetto è oggi in stallo, ma non è escluso che venga rilanciato. Così come non è escluso che questa “febbre della soia” favorisca ulteriori progetti agro-industriali in altre aree del continente africano.

Le possibili conseguenze non sono di poco conto: le monocolture sono in contraddizione con il modello ancora prevalente in Africa subsahariana, che è quello del piccolo produttore. Un mutamento degli equilibri agricoli e sociali di questi paesi, che in parte sta già avvenendo, potrebbe provocare profonde tensioni.

I modelli di consumo influenzano quelli di produzione e possono avere conseguenze globali in aree molto distanti. L’insieme “cereali-semi oleosi-animali d’allevamento” di cui parla Tony Weis ha un impatto ambientale – dalla deforestazione della cerrado e dell’Amazzonia alle emissioni di CO2 per il trasporto della soia, con rilevanti effetti sul cambiamento climatico – e sociale, come l’esautoramento dei mezzi di produzione dei piccoli contadini, che potrebbero trovarsi costretti a spostarsi verso le grandi città o verso i poli attrattivi dell’emigrazione internazionale.

La generalizzazione del modello di consumo occidentale ad altre aree del pianeta e in particolare l’incremento del consumo di carne dei cinesi – così come di altri paesi in cui si osserva una crescita dei ceti medi e del potere d’acquisto, sia in Asia che in Africa – preoccupa molti. “Oggi i cinesi hanno un consumo medio pro-capite di carne che è ancora la metà di quello americano. Ma, essendo 1,4 miliardi di persone, ne consumano una quantità enorme. Se finiranno per allinearsi del tutto alle diete occidentali, dove prenderemo le risorse per dar da mangiare a tutti quegli animali d’allevamento?”, si domanda Janet Larsen, ricercatrice ambientale dell’Earth Policy Institute di Washington.

“Se nel 2050 si raggiungerà la cifra di 120 miliardi di animali, per nutrirli bisognerà impiegare due terzi delle terre arabili del pianeta”

La risposta di Tony Weis a questa domanda ha toni quasi apocalittici: “Se nel 2050 si raggiungerà la cifra di 120 miliardi di animali, per nutrirli bisognerà impiegare due terzi delle terre arabili del pianeta”. Nell’analizzare i trend di consumo, lo studioso canadese esorta a rovesciare la narrativa dominante sul tema della sovrappopolazione: secondo le previsioni della FAO (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di cibo e agricoltura), gli abitanti del pianeta saranno 9 miliardi nel 2050 – e sarà quindi necessario aumentare la produzione di cibo per sfamare questa popolazione in crescita. “Ma la vera sovrappopolazione che dobbiamo affrontare è quella degli animali d’allevamento. Più che aumentare le produzioni, bisogna produrre e consumare in modo diverso. In particolare, va rivisto il modello che prevede un aumento costante dell’uso di proteine animali”.

L’aggregato cereali-semi oleosi-allevamenti intensivi è un esempio classico di produzione alimentare su larga scala, che nel corso degli anni ha permesso di fornire cibo a basso prezzo a fasce importanti di popolazione.

Ma il prezzo è davvero così basso? Il costo percepito non tiene conto del consumo di suolo, dell’inquinamento prodotto dal massiccio uso di pesticidi e dai resti reflui degli animali, del mancato immagazzinamento della CO2 a causa della deforestazione e delle emissioni di CO2 determinate dal trasporto di soia da una parte all’altra del pianeta, nonché dall’enorme consumo di acqua che richiede la produzione di un chilo di carne.

Non tiene conto nemmeno dei costi sociali, come la trasformazione delle campagne in fabbriche di alimenti per popolazioni urbane sempre più numerose e l’espulsione dei piccoli agricoltori dalla catena di produzione alimentare.

Sono le cosiddette “esternalità negative” che non sono conteggiate nel prezzo pagato dal singolo consumatore – più basso proprio grazie alle produzioni intensive – ma che ogni singolo consumatore paga in quanto abitante di un eco-sistema che si deteriora. 

Se si dovessero considerare questi elementi, il costo reale del cibo a basso prezzo sarebbe almeno il doppio di quello che appare sullo scontrino del supermercato. “Il modello industriale-produttivista ha raggiunto i suoi limiti e non può andare oltre i suoi stessi termini (ovvero la continua espansione della produzione e dei raccolti) senza considerare gli effetti sulla sostenibilità ambientale e sociale”, sostiene Olivier De Schutter, professore all’università di Lovanio ed ex relatore speciale ONU per il diritto all’alimentazione (Una politica del cibo per l’Europa, Parolechiave, Carocci 2017). Sembra necessario invertire rotta, in un mondo in cui la popolazione aumenta e le risorse diminuiscono.

Ma per invertire la rotta c’è bisogno di precise politiche e di una campagna di consapevolezza generale, che metta insieme i puntini e colleghi il cibo che consumiamo alle filiere di produzione e commercializzazione, restituendogli il suo vero valore. Perché, se la crescita dei consumi di carne e la richiesta globale di soia può portare all’arricchimento di un gruppo di persone, come gli ex pionieri del Mato Grosso o le aziende trader che fanno profitti enormi, gli effetti di questa iper-produzione pesano sull’ecosistema generale e quindi sul livello di vita nostro e delle generazioni future.

“Ci saranno sfollati, flussi migratori verso i paesi vicini, conseguenti episodi di xenofobia nei confronti dei nuovi arrivati.”

Torniamo quindi alla domanda iniziale: qual è il nesso tra il maiale in agro-dolce servito in un ristorante di Shanghai e un barcone carico di profughi che ondeggia nel Mediterraneo? L’iper-consumo di carne e il modello di produzione a esso correlato possono alterare equilibri già fragili e causare incalcolabili danni ambientali e sociali: un chilo di maiale mangiato in Cina può deforestare un ettaro di Amazzonia, far aumentare la temperatura del pianeta, portando magari alla desertificazione di una particolare regione in un’altra area del mondo, magari in Africa sub-sahariana. La scarsità di acqua scatenerà una guerra per le risorse con le comunità confinanti. Ci saranno sfollati, flussi migratori verso i paesi vicini, conseguenti episodi di xenofobia nei confronti dei nuovi arrivati. Il sovraffollamento porterà altri a partire, attraversare il deserto e il mare e imbarcarsi alla volta dell’Europa. È un fenomeno multi-fattoriale e complesso. Non è certo il maiale di Shanghai a determinare da solo questi effetti. Ma non si tratta di congetture fantascientifiche. È la realtà che stiamo già vivendo.

Stefano Liberti

Stefano Liberti

Giornalista

Scrittore e giornalista. Autore di A Sud di Lampedusa. Cinque anni di viaggi sulle rotte dei migranti (2008, Premio Indro Montanelli), Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo (2011, tradotto in più di dieci paesi) e I signori del cibo. Viaggio nell’industria alimentare che sta distruggendo il pianeta (2016). Come regista ha co-diretto con Enrico Parenti il documentario “Soyalism”, in cui vengono trattati visivamente gli argomenti di questo longform.

Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
Redazione: Gloria Colaianni, Giorgio Fruscione, Nicola Missaglia, Diana Orefice, Francesco Rocchetti, Anthea Valerani.