15 Nov 2021

Flop26

Dopo Glasgow

Il vertice di Glasgow lascia uno strascico di delusione e distanze siderali tra ‘nord’ e ‘sud’ del mondo. Dalle scuse per un accordo ‘annacquato’ alla chiosa di Greta Thunberg: “Bla, bla, bla”

 

Dopo quasi due settimane di negoziati serrati la conferenza globale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Cop26, si è conclusa sabato a Glasgow con l’invito ai paesi a tornare l’anno prossimo in Egitto con obiettivi di riduzione delle emissioni più ambiziosi e la promessa di raddoppiare entro il 2025 i finanziamenti ai paesi più esposti agli effetti del riscaldamento globale. L’accordo finale – il primo in cui è indicato esplicitamente un piano per ridurre l’utilizzo del carbone, il combustibile fossile più inquinante – è da molti giudicato deludente. Le grandi aspettative generate intorno alla Conferenza si sono scontrate con le profonde distanze che separano i paesi industrializzati e principali emettitori di CO2, da quelli a basso reddito che si trovano a fronteggiare gli effetti più dannosi del riscaldamento globale. Se è vero – come ha sottolineato all’indomani del summit il premier britannico Boris Johnson – che “il carbone è condannato a morte”, la domanda giusta da porsi è: sì, ma quando?. Durante l’assemblea conclusiva del vertice, infatti, l’India ha chiesto e ottenuto di sostituire all’ultimo minuto l’espressione ‘phase-out’, (eliminazione graduale) del carbone, con ‘phase-down’ (riduzione graduale). Una modifica all’apparenza minima ma che nella sostanza cambia tutto. Il carbone, che doveva essere abbandonato, sarà solo ridotto. È il frutto di un accordo in extremis raggiunto tra India, Cina e Stati Uniti, che mette tutti gli altri davanti a un aut aut. Prendere o far saltare il banco e su cui, dunque, la conferenza ha scelto di ripiegare pur di portare a casa un accordo

 

 

Una fragile vittoria?

Visibilmente commosso, al termine di quello che ha definito un negoziato “molto duro”, il presidente della Cop26 Alok Sharma ha comunque rivendicato diversi obiettivi raggiunti, tra cui quello – affatto scontato – di aver “mantenuto vivo l’obiettivo di contenere le temperature globali al di sotto degli 1,5°C rispetto ai livelli pre-industriali”. Si tratta di un passo avanti ma è comunque “un impulso debole – ha ammesso Sharma – che sopravviverà solo se manterremo i nostri impegni”. Il che significa tagliare del 45% delle emissioni di CO2 entro il 2030. Ma senza una roadmap condivisa su come e quanto velocemente ogni nazione dovrebbe tagliare le proprie emissioni nel prossimo decennio. Il patto di Glasgow per il clima chiede inoltre agli stati di aggiornare i loro impegni di decarbonizzazione (Ndc) entro il 2022 e ai paesi ricchi di raddoppiare i finanziamenti per sostenere l’adattamento dei paesi in via di sviluppo ai cambiamenti climatici. Intanto, però, il traguardo dei 100 miliardi all’anno promessi nel 2009 a Copenaghen – e da allora corrisposti ma in cifre complessivamente di molto inferiori – è posticipato al 2023. Significa che l’accordo di Cop26 lascia ancora molti paesi in via di sviluppo senza i fondi di cui hanno bisogno per costruire energia più pulita e far fronte a fenomeni meteorologici sempre più estremi.

 

Questione di finanza climatica?

A Glasgow si è parlato molto anche di soldi. Una delle principali discussioni è ruotata attorno al se, e come, le nazioni più ricche del mondo, che sono enormemente più responsabili del riscaldamento globale, dovrebbero risarcire quelle più povere che sono invece le più esposte ai danni che quel riscaldamento provoca. È un meccanismo noto come ‘Loss and damage’ (perdite e danni) e affronta un tema spinoso di responsabilità storiche per la perdita di territori nazionali, danni culturali e la scomparsa degli ecosistemi. Da Glasgow – dopo che all’ultima Cop le discussioni si erano spinte abbastanza avanti per la creazione di un database e di un sistema di comunicazione e segnalazione, chiamato Santiago Network – ci si aspettava di uscire con impegni concreti, un fondo dedicato e dei meccanismi di compensazione. Ma ciò non è avvenuto e la questione è stata rinviata ai colloqui dell’anno prossimo. In compenso la conferenza ha raggiunto un accordo sulla regolamentazione del mercato dei crediti – un sistema di scambio delle emissioni attraverso cui chi inquina di più compensa chi sfora i limiti – ma i paesi vulnerabili insistono sul fatto che il commercio del carbonio non garantisce una riduzione progressiva delle emissioni globali. 

 

 

Un clamoroso insuccesso?

All’indomani della conclusione del vertice, la condanna degli ambientalisti, prima fra tutti Greta Thunberg, è senza appello: “La Cop26 è finita. Ecco un breve riassunto: Bla, bla, bla. Ma il vero lavoro continua fuori da questi saloni. E noi non ci arrenderemo mai, mai”, ha scritto su Twitter l’attivista svedese. Prima dell’inizio dei lavori, il vertice globale sul clima delle Nazioni Unite era stato definito dagli organizzatori come “l’ultima speranza” per salvare il pianeta. Eppure, se valutiamo l’esito della Conferenza prendendo in considerazione gli obiettivi dichiarati all’inizio dei lavori, non possiamo non ritenere che non sia stata all’altezza delle aspettative. Due punti importanti non sono stati realizzati: il rinnovo degli obiettivi per il 2030 che si allinea con la limitazione del riscaldamento a 1,5°C e un accordo sull’accelerazione dell’eliminazione graduale del carbone. Ma agli insuccessi si sono aggiunte decisioni importanti e notevoli passi avanti: l’accordo contro la deforestazione, l’intesa Usa-Cina, il taglio del 30% alle emissioni di metano. Tuttavia, se anche gli impegni presi finora venissero rispettati, e non è detto, non basterebbero ad invertire la rotta: entro il 2100 il mondo sarà comunque più caldo di 2,7 °C rispetto ai livelli preindustriali. E senza una road-map condivisa, l’obiettivo di contenimento del riscaldamento globale entro 1,5 gradi faticosamente “tenuto in vita” a Glasgow, rischia di rimanere lettera morta.

Quindi, la COP26 è stata un fallimento? “La realtà è che ci sono due verità diverse”, fa notare Helen Mountford, vicepresidente per il clima e l’economia presso il World Resources Institute: “Abbiamo fatto molti più progressi di quanto avremmo mai potuto immaginare solo un paio di anni fa. Ma non è ancora neanche lontanamente prossimo dall’essere abbastanza”.

 

Il commento

Di Ruben David, osservatorio geoeconomia ISPI

“Quando nel 2015 Laurent Fabius, presidente della COP21, sbattendo il martelletto decretò l’adozione dell’accordo di Parigi un’aria di giubilo pervase la stanza. Le lacrime di Alok Sharma, presidente della COP26, testimoniano un clima ben meno gioioso, di fronte all’adozione del Glasgow Climate Pact.  

Quelle lacrime sono derivate in buona parte dalla decisione di India e Cina di annacquare il testo finale inserendo il verbo “phase down” al posto di “phase-out” in riferimento all’azione che gli stati devono intraprendere rispetto alla fonte energetica più inquinante: il carbone. 

Considerato che secondo la IEA per raggiungere la neutralità climatica al 2050 il 90% dell’energia dovrebbe provenire da fonti rinnovabili, la decisione finale riguardo al carbone sembra purtroppo giustificare quelle lacrime di disperazione”.

 

 

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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