5 Gen 2020

USA-Iran: le conseguenze della morte di Soleimani

La risposta di Teheran

Il generale ombra, il cavaliere oscuro, il guerriero imprendibile, ma soprattutto il “martire vivente”. Molte sono state le definizioni attribuite in vita a Qassem Soleimani, il comandante delle brigate al Qods del Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica, responsabile delle operazioni all’estero della Repubblica Islamica iraniana: dalla lotta allo Stato Islamico al puntellamento dell’Iraq post-Isis, fino all’assedio di Aleppo e alla riconquista della Siria a favore di Bashar al-Assad. Dal momento della sua uccisione a Baghdad per mezzo di un drone USA, Soleimani è però diventato il martire per eccellenza, la figura attorno alla quale Teheran può ricompattare un paese estremamente diviso al proprio interno, anche per effetto della pesante campagna di pressione statunitense che ne ha messo in crisi l’economia, contribuendo a far aumentare il malcontento dei cittadini. A livello regionale, però, la mossa statunitense rischia di dare origine a una nuova ondata di instabilità i cui effetti hanno già cominciato a riverberarsioltre i confini iraniani. Nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, infatti, è arrivata la risposta di Teheran all’uccisione del suo generale: intorno all’una – la stessa ora in cui pochi giorni fa il drone USA ha colpito in Iraq il convoglio che trasportava Soleimani – 22 missili balistici iraniani si sono abbattuti su due basi irachene che ospitano soldati statunitensi e della coalizione internazionale anti-ISIS. Benché alcuni media iraniani abbiano parlato di 80 vittime, questa cifra è stata sinora smentita sia dagli USA che dalle altre forze straniere presenti in Iraq. Da parte sua, Teheran ha rivendicato la legittimità dell’attacco come misura “proporzionata” di autodifesa nel rispetto del diritto internazionale sancito dall’ONU: la rappresaglia, ha commentato il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif su Twitter, è stata “conclusiva”, a segnalare che l’Iran “non vuole una escalation né la guerra, ma è pronto a difendersi da qualsiasi aggressione”. Ora, la palla torna agli Stati Uniti: dalla risposta di Trump dipenderanno i prossimi sviluppi della crisi che ancora una volta sta incendiando il Medio oriente. 

 

Il commento di Paolo Magri per il Tg1

 

L’uccisione di Soleimani: una decisione ponderata?

Dalla sua residenza di Mar-a-Lago, poche ore dopo aver concluso una partita di golf, il presidente USA Donald Trump ha supervisionato l’operazione che ha portato all’uccisione di Qassem Suleimani, di Abu Mahdi al Muhandis, e degli altri militari legati all’Iran presenti nel convoglio in transito nei pressi dell’aeroporto della capitale irachena. Secondo le ricostruzioni, Trump avrebbe dato il via libera all’opzione presentatagli dal Pentagono già qualche giorno prima, dopo essersi consultato con il Segretario di Stato Mike Pompeo, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Robert O’Brien e altri membri dell’amministrazione. La decisione sarebbe stata presa alla luce dell’escalation di violenza registratasi a Baghdad proprio nel corso dell’ultima settimana, culminata nell’assalto all’ambasciata statunitense condotto da miliziani iracheni collegati all’Iran, e nell’uccisione di un contractor statunitense. Già nella giornata precedente all’uccisione di Suleimani, del resto, il Segretario alla Difesa Mark Esper aveva avvertito della possibilità che gli Usa rispondessero alle provocazioni iraniane con “attacchi preventivi”. 

 

Le motivazioni USA: rischio reale, difesa preventiva?

La portata della decisione presa da Trump, e soprattutto le sue possibili conseguenze future, è tale da imporre una riflessione circa le sue motivazioni. La giustificazione ufficiale fornita dalla Casa Bianca è quella della “difesa preventiva” contro gli attacchi a obiettivi statunitensi che il generale Suleimani stava pianificando in Iraq. Un’accusa plausibile, ancorché impossibile da verificare, e dunque dalla dubbia legittimità giuridica: come ha fatto notare la Special Rapporteur ONU sulle esecuzioni extra-giudiziarie Agnes Callimard, gli omicidi mirati, attraverso droni, non trovano giustificazione nel diritto internazionale umanitario, oltre a presentare una seria sfida alla sovranità nazionale. In questo senso, inoltre, l’assassinio di un esponente di un governo nemico – peraltro su territorio di un paese terzo – rappresenta un pericoloso precedente al quale altri governi potrebbero appellarsi per giustificare proprie azioni – dirette contro i propri nemici – in futuro. 

 

Il quadro più ampio: Elezioni USA 2020 e “massima pressione”

A spingere gli USA a intraprendere un’azione così gravida di rischi e dalla fragile giustificazione legale può essere stato un mix di calcoli di politica interna e di politica estera. Da una parte, l’uccisione del principale agente operativo del Medio Oriente, nonché architetto della strategia regionale iraniana, è indubbiamente un successo tattico che Trump può presentare ai cittadini statunitensi nell’anno elettorale. Si tratta però di una scommessa, perché se di successo tattico si tratta, è invece assai dubbia la capacità e la disponibilità statunitense di fare fronte alle conseguenze che una mossa di questo tipo potrebbe avere sul lungo periodo: motivo per cui pur essendo Soleimani sulla lista dei ricercati da anni, e relativamente ben individuabile, diverse amministrazioni precedenti a quella di Trump hanno rifiutato di dare il via libera all’operazione in passato.

Dal punto di vista della politica estera, invece, Trump ha agito in ossequio alla strategia della “massima pressione”, alla base della quale c’è l’idea che un Iran indebolito e piegato possa soccombere alle proprie richieste. La mancata risposta statunitense agli attacchi – attribuiti all’Iran – contro le petroliere nel Golfo, così come all’attacco dello scorso settembre agli impianti Saudi Aramco in Arabia Saudita, avrebbe trasmesso a Teheran un messaggio di impunità, in base al quale l’Iran si sarebbe sentito legittimato ad agire senza il timore della “punizione” statunitense. Colpendo una figura di spicco come Soleimani, Washington avrebbe ripristinato quella deterrenza che era andata perduta negli ultimi mesi, e avrebbe rimarcato quelle linee rosse che erano andate sbiadendosi in mezzo agli annunci di disimpegno statunitense dal fronte siriano a vantaggio della Turchia, e implicitamente dell’Iran. Anche in questo caso, però, l’incognita è rappresentata dal risultato dell’azzardo di Trump. In questi mesi, la strategia di “massima pressione” non è risultata in un ritorno dell’Iran al tavolo negoziale, bensì in un preoccupante aumento della tensione e dell’instabilità nella regione, con il moltiplicarsi delle possibilità di conflitto. A farne le spese è stato anche e soprattutto l’accordo sul nucleare (JCPOA), già azzoppato dall’uscita USA, poi ulteriormente indebolito dalla ripresa graduale delle attività nucleari iraniane in risposta alla pressione Usa, e ora definitivamente appeso a un filo. 

 

La risposta iraniana: ora è tempo di de-escalation

Come prevedibile, fin dalle prime ore dopo l’attacco statunitense, la Repubblica Islamica ha promesso che l’assassinio di Soleimani non sarebbe rimasto impunito. La risposta iraniana è in effetti arrivata nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, con un attacco mirato su due basi militari statunitensi in Iraq: la base di Al Asad, a ovest di Baghdad, e la base di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Gli attacchi (“Operazione martire Soleimani”) non sembrano aver causato vittime, e rappresentano da parte iraniana la risposta “proporzionata e finale” all’assassinio di Soleimani. Come interpretare tale risposta? Da una parte essa rappresenta un’azione dimostrativa, un rimarcare – da parte iraniana – di avere la capacità di infliggere danni e perdite rilevanti alle truppe statunitensi presenti nella regione. Particolarmente importante è la esplicita rivendicazione della responsabilità dell’attacco da parte del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (pasdaran), in aperto contrasto con la linea dell’opacità strategica perseguita finora (pensiamo ad esempio agli attacchi non rivendicati, ma attribuiti ai pasdaran, contro gli impianti Saudi Aramco in Arabia Saudita lo scorso settembre, o agli atti di pirateria nel Golfo Persico contro petroliere di diverse nazionalità). Al contempo, però, l’operazione sembra essere stata eseguita con precisione chirurgica, allo scopo di evitare vittime e dunque di non fornire agli Stati Uniti una motivazione per agire con una ulteriore rappresaglia. Con l’attacco sulle basi Usa, dunque, l’Iran ha offerto a Trump la possibilità di avviare la de-escalation, al contempo salvando la faccia di fronte alla necessità di vendicare il generale Soleimani, e soprattutto inviando un potente messaggio circa la precisione delle proprie capacità offensive. Altrettanto rilevante, poi, è l’esplicito appello all’art.51 della Carta delle Nazioni Unite da parte del ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, che ha collocato dunque l’attacco alle basi Usa nell’alveo della legittima difesa così come riconosciuta dal diritto internazionale. Un ulteriore tentativo di collocare la propria azione di risposta nell’ambito della legittimità internazionale, e di marcare la distanza rispetto all’unilateralità dell’azione Usa.

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