15 Nov 2021

Il multilateralismo italiano nel nuovo scenario internazionale

Osservatorio ISPI-IAI sulla politica estera italiana n.19

Sedere al tavolo dei “Grandi” del mondo è stata una preoccupazione costante della diplomazia italiana sin dalla metà degli anni Settanta del secolo scorso. Fu allora che si aprì, a seguito della crisi del sistema di Bretton Woods, l’epoca dei cosiddetti Vertici. Al Gruppo dei Sette (G7), che rispecchiava solo il “sistema occidentale”, si aggiunse, per una breve stagione, il G8, con la partecipazione della Russia, e poi il G20, a vocazione globale, più una serie di altri forum a geografia variabile di minore successo.

Oggi la partecipazione dell’Italia a un contesto come il G7 appare scontata, ma vale ricordare che quello che nel 1975 divenne il G7, era all’inizio solo un gruppo informale di quattro Stati (Usa, Francia, Germania e Regno Unito) in cui vennero accolti, in successione, Giappone, Italia e Canada. La nostra inclusione non fu affatto automatica. Fu invece il frutto di un’accorta azione diplomatica. Non va trascurato ad esempio che un'altra media potenza come la Spagna non è membro del G20, ma resta un ospite permanente.

La presenza in questi contesti di cooperazione, dove si trattano questioni globali, non è ovviamente solo una questione di status e di prestigio internazionale. Tali contesti sono infatti un’articolazione di crescente importanza della cosiddetta “global governance”. Parteciparvi può effettivamente consentire, in misura non irrilevante, di influire sulle strategie con cui si affrontano problemi chiave per il futuro del pianeta.

Nel caso del G7 e del G20, un cruciale banco di prova è il modo in cui i Paesi membri gestiscono, quando è il loro turno, la presidenza annuale a rotazione: dice molto non solo sulle loro capacità organizzative, ma anche di mediazione e di promozione di nuove prassi e iniziative di cooperazione. Un test impegnativo, che il governo italiano ha affrontato quest’anno con la presidenza del G20, ottenendo risultati significativi, che gli sono stati ampiamente riconosciuti.

 

Il terzo cerchio

L’impegno nei forum globali, rientra in quello che si usa chiamare il “terzo cerchio” della politica estera italiana, il più esterno, in cui si realizzano forme di cooperazione di vitale importanza per la stabilità dei rapporti internazionali, ma assai meno strette di quelle che caratterizzano gli altri due cerchi, l’europeo e il transatlantico. Ma il termine è  fuorviante perché l’ambito globale include un’estrema varietà di organismi, accordi, e regimi di cooperazione, tutt’altro che riconducibili a un sistema realmente coerente e unico di governance. Rimangono naturalmente fondamentali, anche dal punto di vista degli interessi strettamente nazionali, le Nazioni Unite, nel cui ambito la diplomazia italiana è sempre stata particolarmente attiva. Si pensi solo alle numerose iniziative intraprese dall’Italia sulla riforma dell’Onu e alle periodiche battaglie diplomatiche per l’elezione a membro non permanente del Consiglio di Sicurezza.

Gli equilibri nel mondo sono però cambiati. L’Italia, come gli altri Paesi occidentali, si trova a fare i conti con l’ascesa di nuove potenze, a cui fa riscontro un suo relativo declino sotto molteplici aspetti, in primis, ma non solo, economici e demografici. Per preservare il suo status nell’arena globale, l’Italia deve quindi far fronte a un sovrappiù di impegno, anche per la scarsità di risorse disponibili. In sede Onu i governi italiani puntano soprattutto sul contributo del paese alle varie attività dell’organizzazione. Con luci – l’attivismo diplomatico, l’ampia partecipazione alle missioni di pace – e alcune ombre – l’entità dei fondi per gli aiuti allo sviluppo, il ritardo nel recepire talune norme di diritto internazionale.

 

La direttrice europea

Questi impegni nazionali restano imprescindibili, ma c’è un’altra direttrice non meno importante: quella europea. L’Italia, come gli altri Paesi europei, difficilmente potrà preservare il proprio ruolo internazionale se non sarà potenziato il “moltiplicatore” dell’Ue, la sua capacità di “massimizzare l’influenza collettiva”, per dirla con la Commissione europea. Non si può realisticamente sperare di mantenere lo status del nostro Paese senza un rafforzamento della presenza e della proiezione internazionale dell’Unione.

Servono meccanismi molto più stretti ed efficienti di coordinamento fra i Paesi membri dell’Ue su molti temi di politica estera, un ben più ampio e incisivo sistema di rappresentanza collettiva negli organismi internazionali, nei forum – come lo stesso G20 – nei consessi negoziali, e una maggiore coerenza tra le politiche di integrazione interna e le azioni esterne. Quest’ultima è una condizione necessaria, in particolare, affinché l’Ue – e per suo tramite gli Stati membri – possano avere un ruolo di peso nei difficili tentativi di introdurre regole e standard globali nei settori di punta dell’innovazione tecnologica e nelle aree di crescente importanza economica come la nuova finanza, il digitale, l’intelligenza artificiale e le attività spaziali. L’ambizione dell’Ue di diventare il fulcro di un nuovo multilateralismo “inclusivo” è destinata a rimanere sulla carta se non verranno approntati nuovi strumenti che assicurino maggiore coordinamento e coesione.

Per molti aspetti, la difesa dello status internazionale dell’Italia fa dunque tutt’uno con l’impegno per un rafforzamento del sistema Ue delle relazioni esterne. Sono due direttrici di azione potenzialmente convergenti: un’Unione europea più forte e influente nel mondo può darci più opportunità di fare sentire la nostra voce anche nei contesti globali.

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