21 Dic 2018

“Flashmob Politics”: le masse si rivoltano?

Con il cosiddetto “movimento dei gilet gialli”, la Francia sta vivendo una mobilitazione politica che è al tempo stesso già vista e radicalmente nuova. La dimensione del già visto è legata a una tradizione di protesta e violenza politica in un paese in cui i canali rappresentativi e i gruppi intermedi sono e sono sempre […]

Con il cosiddetto “movimento dei gilet gialli”, la Francia sta vivendo una mobilitazione politica che è al tempo stesso già vista e radicalmente nuova. La dimensione del già visto è legata a una tradizione di protesta e violenza politica in un paese in cui i canali rappresentativi e i gruppi intermedi sono e sono sempre stati sociologicamente deboli e politicamente illegittimi, sin dalla rivoluzione del 1789. È difficile trovare punti in comune tra il caso francese, così peculiare, e gli altri sistemi democratici che di solito possono contare su strumenti di mediazione a livello sia sociale che politico. Il “modello” francese, dunque, non è esportabile in altre società democratiche.

Tuttavia, la mobilitazione di novembre e dicembre ci può dire molto sulle cause della sua radicale originalità, malgrado i limiti dovuti al fatto che le nostre osservazioni arrivano in un momento in cui il movimento si sta ancora sviluppando.

In primo luogo va notato che questa esplosione sociale inaspettata coinvolge persone che non avevano alcuna affiliazione politica o sindacale e – per quanto sia possibile esprimere valutazioni in questa fase – erano depoliticizzate o disinteressate alla politica. Questa indifferenza nei confronti della politica era legata allo status (molti pensionati o lavoratori a basso reddito), al genere (le donne) e alla posizione geografica (campagna, piccole città in tutto il paese). Al contempo, il movimento ha espresso un forte rifiuto di tutte le organizzazioni politiche o sociali.

In secondo luogo, la protesta non può essere definita come un “movimento sociale” nel significato classico dell’espressione, poiché non coinvolge un gruppo sociale ben definito. Non i contadini né le piccole aziende, né i lavoratori né i piccoli commercianti e nemmeno i disoccupati, ma uno strano mix di tutti i gruppi sociali a basso reddito, con basse aspettative e senza prospettive per se stessi e per la propria famiglia. Un gruppo molto eterogeneo caratterizzato da “anomia” o, per usare le parole di Albert Hirschman, persone che avevano già scelto di “fare exit” e che, all’improvviso, scelgono di esprimere la loro rabbia e le loro rivendicazioni. Non c’è molto in comune tra questa folla eterogenea e disperata, se non la sconforto a livello sociale e la sfiducia a livello politico. Dato il contesto, non raro nei paesi democratici sviluppati, lo scoppio improvviso ha colto tutti di sorpresa.

Com’è possibile che disordini e proteste abbiano coinvolto, così in fretta, un tale numero di persone, nonostante la dispersione e l’isolamento geografico, sociale e politico? Grazie ai social network. Tutto è partito da un video postato da una donna che attacca direttamente e in termini piuttosto volgari il Presidente, che è diventato l’unico obiettivo della protesta scatenata dall’aumento delle tasse sull’energia e in particolare sul petrolio. Il video è diventato virale ed è stato visualizzato 6 milioni di volte. Il passo successivo (e geniale) è stato trovare un facile segno di identificazione visibile, diverso e immediatamente disponibile, visto che ogni proprietario di auto deve avere nel proprio veicolo il famoso “gilet jaune”, il giubbetto di sicurezza. In realtà questo simbolo di protesta è probabilmente l’unico elemento di comunanza all’interno di questo eclettico gruppo di manifestanti. Nonostante la povertà, l’isolamento, l’emarginazione, è evidente che queste persone sono ben collegate attraverso un mondo virtuale che ha sostituito le tradizionali organizzazioni sociali e politiche. L’uso dei social media da parte di politici – da Trump a Macron al Movimento Cinque Stelle in Italia – è ben documentato, ma è la prima volta che sfocia in una mobilitazione nazionale senza leader, rappresentanti, programmi, organizzazioni o strutture. Gli unici casi osservabili in precedenza sono di natura diversa: in origine i social network erano utilizzati per il divertimento (l’organizzazione di rave party, per esempio), e mobilitazioni simili potevano essere osservate a livello locale (vedi Roma o Torino) o prevalentemente virtuale (il movimento #MeToo). Il caso francese ricorda un po’ le proteste avvenute durante la cosiddetta primavera araba, in cui i social network hanno giocato un ruolo importante tra i più giovani e istruiti del movimento di protesta.

Un secondo aspetto è il ruolo svolto dalle donne in questo movimento di mobilitazione, così come è avvenuto anche nel caso delle manifestazioni locali di Torino e Roma. Pur essendo ancora meno numerose degli uomini, hanno svolto un ruolo cruciale nell’innescare e organizzare la protesta.

Un terzo fattore da sottolineare è la totale mancanza di leadership, l’assenza di un programma (se non di una “lista della spesa” delle rivendicazioni dei vari gruppi coinvolti) o di un’organizzazione strutturata, ostacolata da divisioni e divergenze interne e dalla mancanza di fiducia nei confronti di qualsiasi tipo di rappresentanza.

Un quarto elemento è l’elevata dipendenza dai social network sia per l’informazione che per la comunicazione. Ciò ha favorito la diffusione di fake news, di teorie del complotto, di discorsi d’odio e di ostilità nei confronti dei media tradizionali considerati come parte delle “élite”.

Tutti questi ingredienti sono facilmente rintracciabili in qualsiasi società e, in futuro, renderanno molto più complicato il funzionamento delle democrazie rappresentative. I governi in carica saranno soggetti a una maggiore volatilità politica, a proteste e violenze, poiché i partiti e i parlamenti non riescono a cogliere i segnali della società, ad aggregarli, a mediare con il governo e arrivare a risultati politici adeguati. Potrebbero emergere due opzioni: l’adozione di politiche di controllo e regole autoritarie o l’individuazione di nuovi strumenti istituzionali in grado di incanalare le frustrazioni e la rabbia di una parte della società. La democrazia rappresentativa si fonda su una convenzione che non funziona quando manca l’ingrediente di base che la rende possibile: la fiducia. Occorre stabilire un nuovo contratto politico e una certa dose di democrazia diretta dovrebbe farne parte, come è avvenuto all’indomani del primo movimento populista negli Stati Uniti alla fine del Diciannovesimo secolo. Le democrazie sono un insieme di elementi eterogenei aggregatisi nel corso degli anni. Il 2019 potrebbe essere uno spartiacque nella continua evoluzione dei sistemi democratici. 

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