25 Nov 2019

Hong Kong: referendum su Pechino

Daily Focus

A spoglio ultimato il risultato è senza appello. Le elezioni distrettuali di Hong Kong si sono rivelate un plebiscito per le forze democratiche e un monito per il governo centrale di Pechino. Ma cosa cambia concretamente e che impatto avrà il voto nei rapporti tra l’isola profumata e l’ingombrante madrepatria?

Uno dopo l’altro i quadratini sulla mappa elettorale di Hong Kong si sono colorati di giallo. Un trionfo, una valanga. Non c’è altro modo per definire il plebiscito registrato nelle elezioni locali di Hong Kong, a favore dei movimenti pro-democratici. Su 452 seggi in palio, 396 vanno a loro, a fronte di 60 assegnati ai candidati pro-establishment e 45 indipendenti. Rispetto alle ultime elezioni, il rapporto di forza si è ribaltato. Di per sé queste elezioni non erano così importanti, ma, dopo cinque mesi di proteste di piazza, si sono trasformate in un referendum sul governo. E, per estensione, su Pechino, che controlla Hong Kong dal 1997, e sulla sua crescente ingerenza nella zona amministrativa speciale. Che il tema fosse molto sentito dalla popolazione, si è capito fin dalle prime ore di domenica, quando i social hanno cominciato a far girare immagini delle lunghe file ai seggi: alla fine l’affluenza ha superato il 71% dei votanti, più di tre milioni di persone. Mai visto prima, neanche per le elezioni parlamentari, ben più importanti sulla carta. “Prendiamo atto” dei risultati che riflettono “l’insoddisfazione delle persone per la situazione attuale” ha dichiarato in un comunicato la governatrice Carrie Lam, aggiungendo che il governo “ascolterà e rifletterà seriamente” sul voto dei cittadini.

 

Per cosa si è votato?

La corsa per i 18 consigli distrettuali solitamente non è un appuntamento cruciale. Ma rappresenta un’elezione “moderatamente” democratica, in cui i cittadini hanno la possibilità di esprimere il proprio sostegno o disappunto sulla vita politica della città. Inoltre per i sostenitori dei movimenti democratici era l’occasione di avere voce in capitolo nell’elezione del capo dell’esecutivo, scelto da un’assemblea di saggi solitamente dominata da lealisti fedeli a Pechino. Anche per questo, per riuscire ad essere della partita, i giovani democratici sono passati, nell’arco di 48 ore, dalle barricate alle file ordinate davanti ai seggi. A nulla è servita la martellante propaganda cinese, che da settimane accusa “forze straniere” di sobillare il caos nella città, né le foto diffuse dalla stampa governativa di giovani manifestanti armati di molotov e pietre. Gli elettori si sono schierati compatti al fianco dei manifestanti e dei loro candidati, uno per ogni circoscrizione.

 

 Come ha reagito la Cina?

 

Un colpo duro per la governatrice Lam, fortemente sostenuta da Pechino. Per settimane la stampa filogovernativa aveva sostenuto che le proteste di Hong Kong fossero frutto di una minoranza, abilmente manovrata dall’esterno e che la maggioranza silenziosa degli abitanti desiderasse solo tornare alla normalità, lasciandosi alle spalle violenze e devastazioni. Il risultato delle urne ha mostrato una realtà diversa, con la popolazione nettamente schierata al fianco dei manifestanti.

Non ci sono stati commenti ufficiali da Pechino. Ma il ministro degli Esteri Wang Yi, parlando dal Giappone, ha ribadito l’essenza della clausola costituzionale che lega Pechino a Hong Kong, ossia che “qualunque cosa accada, Hong Kong fa parte della Cina“. “Qualsiasi tentativo di rovinare Hong Kong, o addirittura danneggiare la sua prosperità e stabilità, non avrà successo”, ha aggiunto. I media statali sono stati cauti nel riportare i risultati. L’agenzia di stampa statale Xinhua ha riferito che il conteggio dei voti è stato ultimato ma non ha riferito in dettaglio risultati.

 

Cosa cambierà realmente?

 

Considerati il gradino più basso dell’autorità politica, i consiglieri distrettuali hanno poteri e budget limitati, relativi a questioni prettamente locali, come gestione delle scuole, rifiuti e strade. Quindi è estremamente improbabile che la loro elezione cambierà, dall’oggi al domani, l’esito del braccio di ferro in corso tra i manifestanti e autorità. La speranza degli attivisti per la democrazia, però, è che il risultato del voto spinga il governo a trattare sulle richieste della piazza, che oltre al ritiro dell’emendamento alla legge sull’estradizione, motivo scatenante dei moti, sono rimaste inascoltate. Tra queste, l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulle violenze della polizia e un’amnistia per i circa cinquemila arrestati potrebbe essere una base per aprire un dialogo. Ma è difficile che avvenga senza il via libera del governo centrale cinese. In definitiva molto, se non tutto, dipenderà dalla risposta del governo di Hong Kong e del suo sponsor a Pechino. Se continueranno a non fare concessioni e a non voler intavolare un negoziato con i dimostranti, le proteste riprenderanno. I manifestanti lo hanno già dimostrato in queste ultime ore: il passo dalle barricate ai seggi è breve. Vale anche il contrario.

 

 

Il COMMENTO

di Giulia Sciorati, analista ISPI Programma Cina

 

“Il movimento giovanile di Hong Kong trarrà nuova enfasi dalla vittoria elettorale. I manifestanti hanno capito di avere dalla loro anche la maggioranza silenziosa dei cittadini che Carrie Lam sperava condannasse la protesta”. 

“Le proteste non sono alle nostre spalle e la fame di democrazia dei cittadini di Hong Kong non è placata. Pechino lo sa e guarda con preoccupazione alle elezioni presidenziali di Taiwan, il prossimo 11 gennaio”.

 

 

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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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