24 Set 2020

Il buio su Hong Kong

Daily focus

Joshua Wong, volto internazionale delle proteste che agitano Hong Kong, è stato arrestato e rilasciato dopo poche ore. È iniziata la stretta finale di Pechino sui promotori delle libertà democratiche?

 

Joshua Wong è stato arrestato e subito dopo rilasciato ma dovrà comparire in tribunale alla fine del mese. L’attivista pro-democratico di Hong Kong è accusato di aver partecipato ad una manifestazione illegale lo scorso 5 ottobre e anche di aver violato la legge che vieta l’uso di maschere nei raduni pubblici. Il 23enne, uno dei volti più noti delle proteste che si susseguono ormai da anni nella ex colonia britannica, teatro di un braccio di ferro tra società civile e autorità locali legate a doppio filo con Pechino, era già stato arrestato diverse volte. Da anni, con il gruppo di attivisti Demosistō, denuncia la volontà della ‘madrepatria’ di imporre sulla regione amministrativa speciale lo stesso controllo capillare e restrizioni simili a quelle in vigore nel resto del paese. L’ultimo giro di vite, in ordine di tempo, risale a fine giugno: l’approvazione di una controversa legge sulla “sicurezza nazionale”, con l’obiettivo ufficiale di arrestare chiunque venga accusato di “attività terroristiche” e atti di “sedizione, sovversione e secessione”. Da allora diversi attivisti sono stati arrestati, e a questi si sono aggiunti 290 manifestanti che protestavano contro la decisione del governo di posticipare di un anno le elezioni legislative, previste domenica 6 settembre. Secondo il governo di Hong Kong il rinvio del voto era necessario per contenere la pandemia da coronavirus, ma l’opposizione accusa l’esecutivo di nascondersi dietro un pretesto per impedire alle persone di votare.

 

Elezioni: strada sbarrata?

Prima di rinviare (cancellare, secondo alcuni) le elezioni, le autorità avevano escluso Wong e altri 11 candidati di opposizione perché “non si sono dimostrati leali alla costituzione di Hong Kong e al governo”. Con il voto si sarebbe dovuto rinnovare il Consiglio Legislativo, l’unico organismo rappresentativo che è parzialmente frutto di un voto popolare. Secondo la legge, dei 70 seggi che lo compongono 35 sono attribuiti in base al voto, 30 distribuiti sulla base del voto di gruppi di interesse locali (banche, associazioni di imprenditori e commercianti) e 5 assegnati ai consiglieri distrettuali. Gli attivisti pro-democrazia, speravano di ottenere un buon risultato al voto e quindi diversi seggi al Consiglio, dove al momento hanno 14 rappresentanti, proprio grazie al malcontento generato dalla legge sulla sicurezza. È di pochi giorni fa, inoltre, la notizia che l’Alta Corte di Hong Kong ha rigettato il ricorso presentato da Wong dopo l’esclusione alle elezioni per il Consiglio distrettuale del 2019.

 

Colpo al cuore della dissidenza?

Il primo degli arresti ‘eccellenti’ nell’ambito del movimento pro-democratico era stato quello di Jimmy Lai, noto editore locale accusato di sospetta “intelligence con forze straniere”, in altre parole spionaggio. Un reato – secondo la nuova legge – punibile con pene fino all’ergastolo. Il suo arresto risale alla metà di agosto, e per essere precisi tre giorni dopo le sanzioni imposte dal Tesoro americano sulla governatrice Carrie Lam e altri funzionari di primo piano dell’amministrazione dell’isola. Forte dell’alleanza con la Russia e dell’appoggio di diversi paesi europei che hanno finora scelto la linea del silenzio, gli arresti suonano come una risposta chiara, da parte di Pechino al presidente USA Donald Trump: non ci fate paura.

 

 

Mulan row: è il soft-power bellezza!

C’è un’altra dissidente che ha fatto parlare di sé in queste ultime settimane: si chiama Agnes Chow, classe 1996 e co-fondatrice con Wong e Nathan Law (ora in esilio) di Demosistō. Il suo profilo, sui social, è stato accostato a quello di Mulan, l’eroina dell’ultimo film Disney oggetto di un’accesa polemica politica. Ma facciamo un passo indietro: lo scorso settembre è uscito online il remake del film d’animazione Mulan. Ispirato a una ballata classica cinese e interpretato da Liu Yifei (nata a Wuhan e poi naturalizzata statunitense), il film ha scatenato appelli al boicottaggio ancor prima dell’uscita, dopo che Liu si era dichiarata a supporto della repressione attuata dalle forze dell’ordine di Hong Kong sui manifestanti. Gli appelli al boicottaggio hanno coinvolto diversi paesi asiatici e sono stati rinnovati quando, a metà agosto, Agnes Chow è stata arrestata. Sui social network è circolato un meme secondo cui Chow somiglia alla “vera Mulan” più di Liu, perché è una giovane donna coraggiosa che lotta per il bene comune. Per non urtare la sensibilità di Pechino sul tema, la multinazionale statunitense non è intervenuta nella querelle. Ma la vicenda non smette di alimentare le critiche: che in nome del profitto la Disney, un pilastro del soft power statunitense, stia cercando di riscrivere la Storia?

 

Un altro autunno caldo?

“Non c’è niente da festeggiare per un rilascio stranamente rapido”, ha commentato su Twitter Wong poche ore dopo essere tornato in libertà. E non solo perché dovrà presentarsi davanti ai magistrati il 30 settembre, dove rischia cinque anni di carcere per assemblea non autorizzata e uno per aver indossato la mascherina. “Ma non mi scoraggio – ha aggiunto – se penso agli altri manifestanti che stanno lottando dietro le sbarre a Hong Kong o nella Cina continentale”. Il fermo di oggi sarebbe volto anche a scoraggiare gli hongkonghesi che volessero scendere in strada il prossimo 1 ottobre, giorno della festa nazionale della Repubblica Popolare Cinese. È in quel giorno che gli attivisti hanno deciso di commemorare l’autunno caldissimo dello scorso anno, quando gli studenti antigovernativi furono tenuti sotto assedio per giorni dalle forze di polizia. Oggi, con la legge sulla sicurezza in vigore, il bilancio poterebbe essere perfino più drammatico. Wong invita la comunità internazionale a non spegnere i riflettori, e avvisa: “We will not surrender”.

 

Il commento

di Giulia Sciorati, Associate Research Fellow, China Programme, Asia Centre

“Quel che succede in Cina rimane in Cina” non è più un assioma su cui Pechino può fare conto. Se la causa del presidente Xi, perorata anche all’Assemblea Generale dell’ONU, è quella di ripristinare la reputazione internazionale cinese, concentrare gli sforzi di securitizzazione su figure internazionali come Joshua Wong potrà forse fare da deterrente per nuovi round di proteste ma, a livello internazionale, ritorna un’immagine del paese che si specchia pericolosamente nello stereotipo presentato dagli Stati Uniti.

 

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

 

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