4 Feb 2022

Israele: Le sfide e i progetti del nuovo governo Bennett-Lapid

Focus Mediterraneo Allargato n.18

Il nuovo governo Bennett-Lapid inizia il nuovo anno avendo già affrontato numerose sfide alla sua stabilità. L’approvazione del budget statale 2021-22 ha sicuramente contribuito a gettare le basi per una collaborazione più stretta tra le varie anime della coalizione che di fronte a sé ha un’agenda impegnativa. A partire dalla quinta ondata di coronavirus, che riporta in primo piano tutte le difficoltà legate alla gestione della pandemia, passando per le profonde divisioni interne allo stato le cui ferite chiedono di essere curate, arrivando quindi alle incognite della politica estera. La partita con l’Iran rimane più che aperta e, nonostante Israele stia lavorando per rafforzare le sue alleanze, sia storiche sia nuove, le instabilità che si affacciano ai suoi confini potrebbero, ora più che mai, giocare un ruolo drammatico nel grande gioco dell’equilibrio mediorientale.

 

Quadro interno

Secondo l’Israel Democracy Index del 2021[1], sondaggio pubblicato lo scorso ottobre dall’Israel Democracy Institute (Idi), i primi mesi di premiership di Bennett hanno contribuito ad aumentare la fiducia nel governo, anche se la strada per ristabilire una fiducia complessiva nelle istituzioni rimane lunga. In linea con i sondaggi precedenti, l’esercito israeliano (Israel Defense Forces, Idf) ha ottenuto il più alto livello di fiducia pubblica, nonostante siano scese dal 90% nel 2019 al 78% nel 2021, il livello più basso dal 2008. Il presidente di Israele è stato il secondo più alto nella classifica con 58%, simile al 56% registrato nel 2020. Il governo ha guadagnato alcuni punti percentuali, salendo al 27% rispetto al 25% nel 2020. Gli arabi israeliani tendono a fidarsi meno delle istituzioni rispetto alla controparte ebraica. Tuttavia, i livelli di fiducia nella comunità araba sono aumentati rispetto allo scorso anno, anche nei confronti dei partiti: l’attuale governo, che per la prima volta ora include un partito arabo, ha guadagnato una maggiore fiducia da parte degli arabi israeliani, passando dal 14% nel 2020 al 28% nella recente indagine. Alla domanda su quali fossero le tensioni sociali più gravi, il 46% dei partecipanti al sondaggio ha nominato quelle tra cittadini ebrei e cittadini arabi, rendendola l’opinione più supportata; nel 2020, solo il 28% si era espresso in tal senso. Tuttavia, si tratta di un’opinione sostenuta più dalla parte della popolazione araba (64%) che di quella ebrea (42,5%). Il divario tra destra e sinistra, che negli ultimi anni aveva tenuto il primo posto, è sceso al secondo con il 32%.

Il pubblico ha mostrato una significativa preoccupazione per la stabilità del governo e della democrazia, con il 44% degli ebrei israeliani e il 75% degli arabi che lo considerano in pericolo. A proposito di democratic backsliding, l’Idi ha riportato che Israele è scivolato ulteriormente in basso nelle classifiche della maggior parte degli indicatori internazionali sui diritti politici, le libertà civili e la libertà di stampa rispetto ai punteggi medi del periodo 2010-19.

Nonostante ciò, sono emersi degli elementi che portano a sperare in un cambio di tendenza rispetto agli ultimi anni; infatti, anche solo in termini di funzionamento e di governabilità delle istituzioni, l’approvazione definitiva del bilancio statale 2021-22 dopo una sessione di 48 ore alla Knesset, ha marcato un passaggio chiave non solo per il governo Bennett-Lapid ma anche per Israele. Questa votazione ha messo fine agli oltre tre anni passati in assenza di budget che per i consumatori israeliani ha avuto il costo di 21 miliardi di shekel (6,5 miliardi di dollari).

Bennett e il suo governo multipartitico hanno superato l’ostacolo più significativo per la loro sopravvivenza politica: infatti, l’accordo di coalizione dello scorso giugno prevedeva la non approvazione del budget come clausola per lo scioglimento immediato del governo. Ecco perché l’opposizione ha compiuto ogni sforzo possibile per convincere uno o due membri della coalizione a disertare; d’ora in poi, per far cadere il governo, l’opposizione non solo dovrebbe mobilitare 61 legislatori per lanciare una vera e propria sfida alla tenuta del “governo del cambiamento” e portare così la Knesset a un voto di fiducia, ma dovrebbe inoltre presentare l’opzione di un esecutivo e di un primo ministro alternativi. Uno scenario del genere è altamente improbabile in questo momento dal punto di vista dello schieramento di Benjamin Netanyahu: mancano almeno otto voti, sei dei quali dovrebbero provenire dalla Lista araba unita (Ra'am, Ual), assolutamente non intenzionata a offrirgli l’occasione di riportarlo al potere. Tuttavia, le questioni che suscitano disordini nella coalizione rimangono molte.

Per contenere le molteplici sfide, il primo ministro Naftali Bennett e il ministro degli Esteri Yair Lapid si sono incontrati a novembre, dopo l’approvazione del bilancio e hanno deciso di nominare due gruppi, uno dal partito Destra di Bennett e l’altro da C’è Futuro di Lapid, per mappare le problematiche più spinose e preparare un piano di azione per ciascuna di esse: dalla riapertura del consolato degli Stati Uniti a Gerusalemme est, alla costruzione di nuove unità abitative nei Territori e all’insediamento di Evyatar; dalla commissione d’inchiesta sull’acquisto di sottomarini, al disegno di legge che vieterebbe a una persona sotto processo di formare un governo; dalla sistemazione del Muro Occidentale, alle riforme in materia di religione e di stato.

Nonostante questa iniziativa, già nei mesi scorsi si sono verificati alcuni inevitabili scontri tra i membri del governo. Ad esempio, a ottobre il ministro della Difesa Benny Gantz ha dichiarato sei Ong palestinesi gruppi terroristici e l’amministrazione civile ha avanzato piani per la costruzione di 3000 nuove unità abitative negli insediamenti. La decisione ha innescato una crisi sia con l’amministrazione statunitense sia all’interno della coalizione, dove i ministri di Meretz e del Partito laburista hanno accusato Gantz di danneggiare Israele e l’attuale governo. Bennett non ha rilasciato dichiarazioni pubbliche sulla questione, lasciando Gantz come il facile bersaglio dell’indignazione dei suoi ministri. Le preoccupazioni del primo ministro sono del tutto politiche perché il suo partito (Destra) è in crisi, lacerato internamente per la decisione di entrare a far parte di un governo formato da diversi partiti di sinistra, oltre che dal partito Lista araba unita. Tuttavia, la presenza di questi partiti della coalizione tuttora persiste, ed è difficile prevedere per quanto non reagiranno di fronte a provvedimenti presi dal governo che saranno in opposizione diretta con la loro visione.

Tuttavia, nonostante le numerose potenziali crisi che mettono in pericolo questa coalizione, solo una potrebbe infliggere un colpo da ko: la decisione di Netanyahu di lasciare la politica. Netanyahu è la calamita che tiene in posizione i componenti della coalizione, se scomparisse, porterebbe via con sé la colla che lega gli otto partiti della coalizione di governo. Al momento, l’ex primo ministro si trova ad affrontare una situazione complessa poiché deve mantenere in salute la storica alleanza tra il Likud e i partiti ultraortodossi (haredim) che, a loro volta, stanno attraversando un periodo difficile, viste le riforme adottate dal governo e la loro mancanza di voce in capitolo nel determinare il budget. Allo stesso tempo, deve anche difendere il suo status speciale all’interno del Likud, perché i membri del partito hanno ben capito che, vista la situazione nell’arena politica attuale, finché Netanyahu sarà a capo del Likud, il partito è destinato all’opposizione. Del resto, anche i sondaggi di opinione più lusinghieri non concedono i 61 seggi nella Knesset di cui avrebbero bisogno per formare una coalizione; inoltre, Netanyahu è ancora a corto di alleati: gli haredim e le componenti ultra-nazionaliste sono rimasti una forza solida e significativa, ma non sono di certo in grado di tradursi in una coalizione di governo. Sullo sfondo si delineano gli sviluppi del suo processo. Mercoledì 12 gennaio, il quotidiano Ma'ariv ha reso pubblica la notizia[2] che il leader dell’opposizione Netanyahu e i pubblici ministeri hanno discusso di un potenziale patteggiamento. Il termine per raggiungere un accordo è la fine di gennaio, quando il procuratore generale Avichai Mandelblit andrà in pensione (1 febbraio 2021), dopo sei anni in carica. Netanyahu ritiene debole l’attuale procuratore generale e quindi che sia possibile ottenere un accordo favorevole; sicuramente più conveniente rispetto a quanto potrebbe ottenere con Amit Aisman, procuratore di stato nominato successore temporaneo di Mandelblit dal ministro della Giustizia Gideon Sa'ar. Da quanto emerso, si dice anche che i pubblici ministeri siano disposti a chiudere il caso 2000, a rimuovere l’accusa di corruzione nel caso 4000, ad ammorbidire le accuse nel caso 1000, facendo cadere le accuse di frode e lasciando solo le accuse di violazione della fiducia. A oggi, le discussioni tra le parti si sono concluse quando è apparso chiaro che il procuratore generale avrebbe richiesto una piena ammissione da parte di Netanyahu che i suoi crimini abbiano costituito “turpitudine morale”[3]. Una tale ammissione eviterebbe all’ex primo ministro la detenzione in carcere ma al costo di una sospensione di circa sette anni dalle cariche pubbliche, che porrebbe così effettivamente fine alla sua carriera politica.

 

Relazioni esterne

Il 29 novembre sono ripartiti a Vienna i negoziati per riprendere l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) dopo cinque mesi di stop dovuti al cambio di amministrazione a Teheran; le delegazioni di Iran e Stati Uniti non si sono parlate direttamente perché l’amministrazione Trump era uscita unilateralmente dall’accordo nel 2018. La mediazione, quindi, è avvenuta tramite i rappresentanti inglesi, francesi, tedeschi, russi e cinesi. Israele ha sempre considerato pericoloso l’accordo nucleare in quanto avrebbe legittimato il diritto iraniano di condurre un programma nucleare militare, invece di eliminarne definitivamente l’opzione. Fino a poco tempo fa, la richiesta israeliana ai paesi firmatari era di annullare l’accordo a favore di una maggiore pressione sull’Iran che lo avrebbe portato ad abbandonare completamente il suo programma nucleare. Per esercitare tale pressione sul governo di Teheran si sarebbe dovuto ricorrere non solo all’isolamento diplomatico e a una credibile minaccia militare internazionale, ma anche all’imposizione di severe sanzioni economiche. Di recente, tuttavia, l’attitudine israeliana di opposizione radicale all’accordo sul nucleare iraniano sembra essere mutata[4] e l’intervento del 2 gennaio del maggiore generale Aharon Haliva, capo dell’intelligence militare, durante la sessione del gabinetto di sicurezza ha fatto intuire il cambio di rotta. Haliva ha espressamente detto che tra le due opzioni possibili a Vienna, il raggiungimento di un accordo o il fallimento dei colloqui, la prima sarebbe sicuramente preferibile per Israele[5]. Il 3 gennaio il ministro degli Esteri Yair Lapid ha dichiarato: “Il primo ministro, il ministro della Difesa e io abbiamo dichiarato che non siamo contrari a qualsiasi accordo; un buon accordo è una cosa positiva”[6].

Questo approccio da parte dell’intelligence e della sicurezza israeliana è stato il medesimo anche durante i negoziati del 2015, stabilendo che l’ottenimento di un accordo avrebbe concesso a Israele una finestra di tempo (da 10 a 15 anni) per indirizzare le sue risorse verso altre minacce e comunque prepararsi per l’era post-accordo.

In un rapporto del New York Times del 18 dicembre 2021[7], funzionari dell’establishment israeliano hanno fatto intendere come in questo momento l’esercito (Israel Defense Forces, Idf) non avrebbe le capacità di attaccare gli impianti nucleari in Iran. Israele era più preparato all’inizio dell’ultimo decennio, ma con la firma dell’accordo nucleare iraniano nel 2015, il paese ha deciso di dirottare risorse verso altre questioni urgenti. Il presupposto era che finché l’accordo nucleare fosse in vigore, non sarebbe stata necessaria un’azione militare israeliana; in quest’ottica, i funzionari della sicurezza non hanno voluto prendere parte in passato agli sforzi dell’allora primo ministro Netanyahu per convincere Trump a ritirarsi dall’accordo, avvertendo che la mossa avrebbe potuto rivelarsi un’arma a doppio taglio.

Un altro elemento che sta indirizzando la condotta israeliana nei confronti dell’accordo, è la crescente consapevolezza che la dinamica dei negoziati non può essere invertita quindi, tutto ciò che si può fare è ridurre al minimo i danni e cercare di ottenere dagli Stati Uniti quanti più risarcimenti e aiuti possibili per alleviare le preoccupazioni di Israele. Ci si può aspettare dunque che, se verrà raggiunto un accordo, sarà accompagnato da un significativo pacchetto di aiuti americani non solo per Israele, ma anche per altri alleati in Medio Oriente.

La nuova strategia di Israele consiste nel mantenere la moderazione per evitare le critiche di Washington ma, allo stesso tempo, le forze di difesa e l’aviazione israeliana stanno continuando i preparativi per l’opzione militare contro l’Iran, assegnando miliardi di shekel per completare il suo assetto entro un anno o massimo diciotto mesi. La leadership israeliana sta affrontando non solo la questione della preparazione logistica e tattica relativa a un possibile attacco al programma nucleare di Teheran, ma anche le incognite relative ai suoi stessi esiti: fino a che punto l’attacco potrebbe frenare i progressi iraniani? Il vantaggio di un tale attacco supererebbe le sue potenziali conseguenze? In particolar modo, lo scenario della ritorsione da parte degli alleati iraniani in Siria e Libano è davvero cruciale nel quadro delle considerazioni israeliane. La preoccupazione principale è rivolta a Hezbollah che, se decidesse di entrare in guerra con Israele in risposta ad un attacco sul suolo iraniano, sarebbe in grado di causare a Israele incalcolabili danni, specialmente nel nord del paese. L’aumento dei sospetti raid israeliani degli ultimi mesi sarebbe quindi mirato a sabotare il trinceramento dell’Iran in Siria e sventare le sue consegne di armi avanzate a Hezbollah. Un tale attrito porta però anche a considerare l’eventualità per cui una possibile guerra tra Israele e Hezbollah possa scoppiare non per una decisione consapevole di una delle parti, ma come risultato del moltiplicarsi di scaramucce che minacciano di sfuggire di mano e forzare l’escalation.

Oggi si stima che Hezbollah disponga di circa 70.000 razzi[8] la maggior parte con una portata di 45 chilometri, ma alcuni anche in grado di raggiungere quasi tutto Israele. Inoltre, la milizia possiede anche dozzine di missili di precisione che preoccupano l’establishment della sicurezza israeliano perché potrebbero colpire siti strategici come persino le batterie Iron Dome. Una stima della capacità di fuoco di Hezbollah si aggira attorno a più di 1500 razzi al giorno, in tali circostanze, i sistemi di difesa israeliani (incluso l’Iron Dome) non sarebbero in grado di mantenere l’impressionante tasso di intercettazione del 90% raggiunto nei conflitti passati con Gaza.

Un’altra possibilità presa in considerazione è che la ritorsione possa cominciare dalla Striscia di Gaza, il cui confine è tornato a essere caldo e non privo di incidenti. Il più significativo è il lancio di due razzi il 1° gennaio, a cui è seguito un attacco aereo israeliano, mirato ai siti di produzione di razzi di Hamas. Tuttavia, nessun gruppo palestinese si è assunto la responsabilità dell’azione e, secondo quanto riferito, Hamas ha trasmesso un messaggio a Israele attraverso l’Egitto, sostenendo che il lancio era il risultato di un malfunzionamento innescato da un temporale. Tuttavia, i rapporti israeliani sembrano affermare che dietro a quanto successo ci sia il Jihad islamico, con Hamas che ha tacitamente accettato la mossa. L’incidente potrebbe derivare dalla frustrazione nei colloqui mediati dall’Egitto tra Hamas e Israele per il raggiungimento di un accordo sullo scambio di prigionieri e sul raggiungimento di una tregua di lungo termine. Un’altra spiegazione, invece, potrebbe essere collegata al membro del Jihad islamico, Hisham Abu Hawash, detenuto in Israele e in sciopero della fame da oltre quattro mesi per protestare contro la sua detenzione amministrativa.

Queste circostanze mostrano come il cessate-il-fuoco tra Israele e Hamas mediato dall’Egitto dopo le ultime violenze di maggio sia evidentemente fragile. Inoltre, Israele e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) sono preoccupate per la presenza di Hamas in Cisgiordania e il suo coinvolgimento nell’organizzazione di attacchi terroristici che, non solo indeboliscono l’Anp, ma rappresenterebbero anche un modo relativamente sicuro per danneggiare Israele senza rischiare una risposta diretta. La preoccupazione israeliana su questo fronte si acuisce alla luce della crescente tensione tra Hamas e l’Anp e della debolezza che il presidente Abbas sta mostrando nell’affrontare gli attacchi provenienti dai territori sotto la sua giurisdizione: la proliferazione di attacchi “riusciti” non fa che erodere ulteriormente la popolarità dell’Anp e accresce la simpatia per le file di Hamas, portando anche a violenti scontri tra le forze di sicurezza palestinesi e Fatah e uomini armati appartenenti a frange più estremiste nei campi profughi della Cisgiordania settentrionale (come avvenuto recentemente a Jenin).

Il deterioramento della situazione della sicurezza nei Territori, già non quieta di per sé, sarebbe connesso alla situazione di Gaza e i rispettivi sviluppi potrebbero essere legati a doppio filo nei prossimi mesi. Considerato che il conflitto dello scorso maggio è iniziato con Hamas che ha lanciato razzi su Gerusalemme per solidarietà con i residenti di Gerusalemme est, non è da escludersi che la prossima volta la causa dello scontro potrebbe risiedere in Cisgordania.

Visto l’intreccio che sembra sempre più esistere tra Israele, Cisgiordania e Gaza, non stupisce la stretta (e ormai pubblicamente dichiarata) collaborazione con l’Egitto, segno appunto di sviluppi significativi delle relazioni tra gli attori dell’area. Negli ultimi anni, i due paesi si sono avvicinati significativamente sulle questioni di sicurezza condivise; di particolare importanza sono la Striscia di Gaza e la battaglia in corso contro cellule terroristiche dello Stato islamico (IS) nella penisola del Sinai. Queste preoccupazioni comuni hanno portato il 7 novembre scorso a una revisione dell'accordo di sicurezza tra Egitto e Israele per aumentare il numero di militari egiziani di stanza nel Sinai per contrastare l’IS nella penisola.

Alla luce di tutto ciò, i rapporti degli ultimi tempi sugli incontri tra alti funzionari israeliani ed egiziani sembrano indicare un cambiamento radicale nelle relazioni tra il Cairo e Gerusalemme, indubbiamente molto migliorate anche grazie a un contesto mediorientale più favorevole nei confronti di Israele grazie alla stipula degli Accordi di Abramo. In un’ottica allargata, la normalizzazione delle relazioni tra alcuni stati arabi e Israele ha portato un vantaggio strategico a quest’ultimo andando ben al di là del proprio coinvolgimento con i paesi firmatari l’Accordo. Il 15 settembre è stato il primo anniversario della firma degli accordi a Washington ed è attualmente in corso un intenso lavoro da parte israeliana per coinvolgere altri partner.

Israele sta portando avanti contatti e colloqui con altri stati della regione mediorientale, quali l’Arabia Saudita, il Kuwait, l’Oman e la Tunisia, ma le loro rappresentanze politiche sono in un vero e proprio stallo: da un lato, guardano con invidia all’impennata del commercio bilaterale tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti e al fatto che Israele fornisce informazioni e strumenti di intelligence ai suoi nuovi partner. Dall’altro, l’opinione pubblica interna di questi paesi, che stanno valutando l’ingresso negli Accordi, non sostiene pienamente il riavvicinamento con Israele e, lo stallo apparentemente senza speranza dei negoziati israelo-palestinesi non è di buon auspicio per una risposta positiva. Altre questioni, di natura più strategica e che coinvolgono paesi come Iran e Stati Uniti, stanno avendo ripercussioni sul possibile esito. Il primo sta rafforzando il proprio radicamento in Medio Oriente, il secondo sta ridimensionando il suo impegno nella regione (in particolar modo dal punto di vista militare), dando l’impressione ai governi alleati di essere soli ad affrontare la minaccia iraniana. Questi avvenimenti porterebbero a un rafforzamento dell’impianto costruito dagli Accordi di Abramo, invogliando molti stati nella regione a cercare un pivot che consenta loro di bilanciare l’influenza dell’Iran.

La nuova adesione di stati come l’Arabia Saudita, il Kuwait o la Tunisia consoliderebbe notevolmente la struttura degli accordi, tuttavia, bisogna tenere bene a mente come gli sconvolgimenti in Medio Oriente siano all’ordine del giorno: una significativa ondata di violenza in Cisgiordania o un altro scontro con la Striscia di Gaza potrebbero improvvisamente inficiare i progressi fatti.

Come noto, la linea ufficiale del primo ministro Bennett è di opposizione verso il rinnovo dei negoziati di pace con i palestinesi, tuttavia il suo governo si sta impegnando a sostenere l’Anp e rafforzare la sua economia in difficoltà; a condurre questa linea di azione è il ministro della Difesa Gantz che, da giugno scorso, ha già incontrato il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, in due occasioni. La più recente, il 28 dicembre, nella casa del ministro a Rosh Ha'ayin.

Durante l’incontro, il governo israeliano ha accettato di dare all’Anp 100 milioni di shekel (32 milioni di dollari) come anticipo sulle tasse che Israele riscuote per conto di Ramallah e di rilasciare centinaia di permessi per spostamenti di lavoro tra Cisgiordania e Israele. Inoltre, sono stati concessi permessi di soggiorno a 6000 persone che vivono in Cisgiordania senza status legale e a 3500 nella Striscia di Gaza.

Non sono state prese decisioni importanti tali da sbloccare l’impasse con il fronte palestinese, ma senza dubbio è stata un’iniziativa fatta con lo scopo di riallacciare i rapporti, fino a pochi mesi fa congelati, e di sostenere l’Anp in funzione anti-Hamas. Gantz ha affermato di vedere il governo di Abbas come l’unica alternativa alla vittoria del movimento islamico anche in Cisgiordania.

I funzionari di Hamas e del Jihad islamico hanno immediatamente criticato Abbas per l’incontro, affermando che quanto avvenuto non solo confermerebbe l’attitudine di Abbas nell’eseguire gli ordini di Israele, ma sarebbe anche un tentativo per sottrarre l’Anp alla crisi politica che sta affrontando.

 

[1] Israel Democracy Index 2021, Israel Democracy Institute, 6 gennaio 2022.

[2] T. Staff, “Netanyahu held talks with prosecutors on potential plea deal – report”, The Times of Israel, 12 gennaio 2022.

[3] A. Pfeffer, “Netanyahu’s Plea-deal Dilemma: Does Get-out-of-jail Mean Ending His Political Career?”, Haaretz, 14 gennaio 2022.

[4] A. Pfeffer, “Bennett No Longer Considers Iran Nuclear Deal ‘Historic Mistake,’ but He Can’t Say So”, Haaretz, 18 ottobre 2021.

[5] B. Ravid, “Scoop: Israel’s Military Intel Chief Says Iran Deal Better No Deal”, axios, 5 gennaio 2022.

[6] L. Harkov, “Iran nuclear talks won’t end in good result for Israel – Lapid”, The Jerusalem Post, 3 gennaio 2022.

[7] R. Bergman e P. Kingsley, “Israeli Defense Officials Cast Doubt on Threat to Attack Iran”, The New York Times, 18 gennaio 2022.

[8] U. Dekel, “A Multi-Arena Missile Attack that Disrupts Israel’s Defense and Resilience Pillars”, in O. Winter (a cura di), Existential Threat Scenarios to the State of Israel, The Institute for National Security Studies (INSS).

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