24 Mar 2020

Coronavirus e bilancio Ue: l’ora del coraggio

Osservatorio ISPI-IAI sulla politica estera n.9

Prima che l’emergenza coronavirus monopolizzasse comprensibilmente l’attenzione del mondo, in Europa si consumava l’ennesima spaccatura su un tema dirimente: il quadro finanziario pluriennale 2021-2027 (QFP). In pratica su quanti soldi potrà contare l’Ue nei prossimi sette anni e da dove provengono questi soldi. Lo scorso febbraio i capi di stato e di governo avevano cercato un compromesso in una ennesima maratona negoziale, conseguendo però un nulla di fatto. E questa è la situazione in cui ci troviamo ancora oggi. Una situazione che non può durare a lungo, se si vuole evitare che da gennaio prossimo l’Ue si ritrovi senza precise linee guida sul proprio bilancio per il prossimo settennato. Anzi che si ritrovi proprio senza bilancio approvato, nemmeno quello annuale. Mentre si decide quindi di allentare i controlli sui bilanci degli stati membri sospendendo il Patto di stabilità e crescita, rimane ancora il punto interrogativo sul QFP.

I negoziati si erano arenati anzitutto su un punto: quanto gli stati membri devono assegnare al bilancio europeo sottraendolo ai propri bilanci nazionali. Tanto più perché bisognava anche capire dove reperire i circa 8 miliardi all’anno che mancheranno alla casse europee dopo l’uscita della Gran Bretagna. La Commissione aveva messo sul piatto una proposta di budget pari all’1.1 % del prodotto nazionale lordo (PNL) europeo, subito affossata però dagli stati “frugali” (Olanda, Austria, Danimarca e Svezia) che non intendono andare oltre l’1%. A questi si è aggiunta anche la Germania che, pur rimanendo il principale contributore netto dell’Ue, godeva di uno sconto sul bilancio Ue. Sul tavolo c’era la (giusta) proposta secondo la quale dopo l’uscita di Londra – che dalla Thatcher in poi aveva ottenuto un ampio ‘sconto’ su quanto dovuto a Bruxelles – anche gli altri paesi avrebbero dovuto cedere sui propri ‘sconti’. La prospettiva di aumentare ancora il proprio contributo al bilancio Ue è stata però del tutto esclusa da questi paesi, a partire proprio dalla Germania della cancelliera Merkel.

Sempre dal lato delle entrate la prima proposta della Commissione Ue prevedeva nuove risorse che per il 12% sarebbero arrivate da una tassa sulle imprese calcolata su una base imponibile comune e per un ulteriore 20% dalla vendita dei permessi di inquinamento (nell’ambito dello European Trading Scheme) e da una tassa sui rifiuti plastici. Su un’altra entrata – i dazi – si prevedeva di ridurre dal 20 al 10% la percentuale che viene trattenuta dai grandi porti di prima entrata delle merci extra-Ue (primo fra tutti quello di Rotterdam). Una misura potenzialmente a favore dei porti di media dimensione, inclusi quelli italiani.

Stessa confusione regna dal lato delle uscite. Ancora una volta ragioniamo a partire dalla proposta della Commissione. La politica agricola comune verrebbe ridotta del 5% e quella di coesione del 6% rispetto al settennato precedente. Spese di certo importanti anche per l’Italia e le sue regioni, che però avrebbero poco da temere. Sulle politiche di coesione, ad esempio, la Commissione prevedeva anche un loro riorentamento geografico che penalizza i paesi dell’Est (-25%) a favore di paesi mediterranei come la Grecia (+8%), la Spagna (+5%) e appunto l’Italia (+6,4%). Su un altro tema caldo per l’Italia, come la protezione dei confini esterni dell’Ue, la Commissione prevedeva di passare da 12 a 30 miliardi. Aumentava inoltre la spesa per la difesa comune, la ricerca e le infrastrutture digitali. Tre rilevanti ‘beni comuni’ europei che sono anche strategicamente importanti per l’Italia.

L’Italia avrebbe quindi tutto l’interesse per chiedere che, quanto meno, venga approvata la prima proposta della Commissione Ue e dovrebbe cercare di fare sponda con paesi, come la Francia, che hanno interessi sostanzialmente simili.

Eppure dopo l’emergenza coronavirus, le logiche sopra esposte dovrebbero essere sostanzialmente riviste. Punto di partenza per definire l’ammontare totale del bilancio Ue dovrebbe infatti essere l’“Agenda per l’Europa” voluta dalla nuova Commissione Ue con ampie misure riguardanti la ‘green economy’ e la trasformazione digitale, e con l’ambizione di rendere l’Ue una vera e propria Unione geopolitica, in grado di competere alla pari con giganti quali Stati Uniti e Cina.

Inutile iniziare a litigare sullo zero virgola in più o in meno. Bisognerebbe prima ripensare a quali e quante risorse sono davvero necessarie per perseguire gli obiettivi, tanto necessari quanto ambiziosi, che la nuova Commissione Ue si è posta. Risorse cui bisognerebbe aggiungere anche fondi e garanzie per dotare veramente l’Ue di meccanismi di prevenzione della diffusione delle epidemie e di intervento in chiave solidaristica verso i paesi membri più colpiti. Se così non fosse, ci si condannerebbe a interventi simili a quelli recentemente annunciati dalla presidente Von der Leyen. Interventi di cui vanno certamente lodate le buone intenzioni, ma che purtroppo assomigliano troppo al ‘raschiare il barile’.

Insomma per la negoziazione sul bilancio Ue, i leader europei dovrebbero avere il coraggio di non mettere al primo posto la logica dei ‘saldi netti’, quanto piuttosto l’ammontare di cui l’Ue ha davvero bisogno nei prossimi sette anni. Poi si potrà anche litigare sul contributo di ciascuno e, magari con ancora maggior ambizione, su nuove risorse proprie dell’Ue.

Dall’emergenza coronavirus si dovrà pur imparare qualcosa. Lo ‘status quo’ potrebbe risultare una opzione troppo conservativa e poco coraggiosa. Anche per l’Italia.

 

Questo articolo è stato pubblicato nell’ambito dell’Osservatorio ISPI-IAI sulla politica estera italiana, realizzato con il contributo del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. 

Le opinioni espresse dall’autore/autori sono strettamente personali e non riflettono necessariamente quelle dello IAI, dell'ISPI o del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale.

Pubblicazioni

Vedi tutti

Eventi correlati

Calendario eventi
Not logged in
x