20 Mar 2020

Regno Unito: il passo incerto contro il coronavirus

Con calma inquietante la Gran Bretagna s’allinea buona ultima alle regole del progressivo lockdown. Non lo vuole ancora riconoscere con la trasparenza e l’urgenza italiana, spagnola, francese e tedesca, ma il cammino è tracciato. Lo sa il premier Boris Johnson, lo sanno i sudditi di Elisabetta, nonostante, nel primo, continui a prevalere l’urgenza di differenziare […]

Con calma inquietante la Gran Bretagna s’allinea buona ultima alle regole del progressivo lockdown. Non lo vuole ancora riconoscere con la trasparenza e l’urgenza italiana, spagnola, francese e tedesca, ma il cammino è tracciato.

Lo sa il premier Boris Johnson, lo sanno i sudditi di Elisabetta, nonostante, nel primo, continui a prevalere l’urgenza di differenziare se stesso e il paese, dagli ex partner europei. Lo si vede nel tono usato nel corso delle prime conferenze stampa, nella volontà di parlare solo della realtà del Regno senza mai menzionare le altre capitali se non per narrarne la triste condizione. Sembra mancare empatia verso una risposta corale da dare a un mal comune, sembra prevalere l’esigenza di esaltare, una volta di più, “la via britannica” – anzi inglese – alla lotta contro il coronavirus. Pare affermarsi, in ultima analisi, la logica di competizione e concorrenza versus quella di cooperazione e condivisione internazionale fra pari.

Bagatelle politiche per un massacro in pieno svolgimento? È possibile che i fatti dimostrino nei cruciali giorni a venire che le prime impressioni offerte da Boris Johnson e dal suo team di scienziati siano un miraggio. È un fatto che l’approccio darwiniano, con la sopravvivenza dei più abili come unica desolante prospettiva in questa lotta al virus messo in campo dall’esecutivo conservatore, stia mutando. Dopo aver annunciato che numerose famiglie devono rassegnarsi “a perdere i propri cari”, il premier ha cominciato a muoversi in modo eccentrico. Dapprima ha cavalcato la teoria dell’immunità di gregge, poi l’ha messa parzialmente da parte, prima ha proposto 5mila tamponi al giorno ora si appresta a farne 25mila.

Non c’è nulla di strano se i comportamenti dei leader politici sono a tratti contraddittori: la pandemia ha messo il mondo dinnanzi a una realtà senza precedenti recenti per l’occidente. Inevitabili quindi le fughe in avanti e le rapide correzioni. È un po’ meno ovvio, tuttavia, per un paese che ha avuto la fortuna di essere travolto due o tre settimane dopo l’Italia. La prevalenza di una sottovalutazione dettata da un tratto vagamente machista ha prodotto il solo effetto di gettare alle ortiche quel beneficio temporale che avrebbe forse potuto rallentare l’onda ora tanto temuta.

La situazione è ovviamente in costante movimento, ma mentre vi scriviamo la concentrazione dei contagiati è nell’area metropolitana di Londra, un bacino di dieci e più milioni di abitanti che saccheggiano i supermercati, ma continuano a viaggiare in tube e autobus, frequentano pub e ristoranti, con appena meno zelo di prima (in queste ore si vedono per la prima volta locali e mezzi pubblici semi-vuoti). La bomba sarà lì, fra i grattacieli della City e i teatri del West Ed, anzi qui, da dove vi scrivo. La prospettiva non è affatto rassicurante. Un dato per tutti: il Regno Unito ha circa la metà dei ventilatori dell’Italia e metà circa dei posti letto in terapia intensiva. Sta cercando di comperarli, ma è ormai in lista d’attesa dietro a mezzo mondo. Sta cercando di produrli, incoraggiando alla riconversione le aziende manifatturiere del Regno. In realtà produrre mascherine per uno stabilimento tessile è possibile, ventilatori per un’impresa che assembla motori è impresa assai più complessa.

Il tempo ci dirà quanto alto sarà il prezzo del tempo perso dal Regno Unito per una malcelata volontà di minimizzare sull’onda di voglie nazionaliste radicate nello slogan “take back control”, motivo conduttore della Brexit.

La sbornia antieuropeista, la foga autarchica si stanno trasformando in un tragico contrappasso? Per il bene del Regno Unito ci auguriamo di no, ma è impossibile non scorgere connessioni fra la propaganda anti-Ue di questi ultimi tre anni nel paese e la risposta caotica che Londra sta dando alla pandemia. Si ritrova più sola nel momento in cui la solidarietà europea – se saprà concretizzarsi davvero – è essenziale per spingerci tutti fuori dall’impasse. Se la pandemia prodotta da coronavirus è il prodotto della globalizzazione delle nostre vite, non è la repulsa alle logiche della cooperazione europea la risposta utile. Soprattutto per un Regno che – sotto la guida di Boris Johnson – non contesta la globalizzazione, anzi la promuove assegnando però a Londra un ruolo autonomo, distinto, solitario, lontano dal progetto comune dei Ventisette. Se ci riuscirà davvero ce lo dirà, ancora una volta, la storia. Prima di allora l’esito del negoziato sull’assetto commerciale fra Londra e Ue offrirà tuttavia indicazioni utili. Trattativa che langue essendo, come tutto in questi giorni, vittima del coronavirus. Boris Johnson ha trovato nel virus una buona – incontestabile – motivazione per far slittare, come crediamo dovrà fare, oltre il dicembre 2020 i termini del futuro accordo economico e commerciale con l’Ue. E per allontanare anche l’uscita definitiva dall’Ema, organismo paneuropeo sui farmaci da cui il premier ha già mosso i primi passi d’addio, esponendo Londra fin d’ora al rischio di lungaggini burocratiche sull’approvvigionamento di materiale farmaceutico in queste ore di emergenza.

Riprendere il controllo significa anche perdere salvaguardie, il costo della Brexit rischia infatti di esplodere sul tragico moltiplicatore del virus Corona.

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