31 Mar 2020

Orban, Visegrad e il volto autoritario del coronavirus

Ungheria e Polonia

In un’Europa in pieno stato d’emergenza a causa della pandemia da coronavirus, i poteri governativi si sono ampliati ovunque. La situazione richiede decisioni rapide, immediate. Del resto è in corso una sfida contro il tempo per salvare vite umane e contenere il più possibile il collasso economico, che è inevitabile.

Anche l’Ungheria di Viktor Orbán si è mossa su questo solco, ma il perimetro d’azione che il primo ministro ha tracciato per sé è praticamente illimitato. Da mezzanotte è in vigore un pacchetto di misure che gli permette di governare per decreto senza il controllo del parlamento, che è stato sospeso. La sola guardiana dell’azione dell’esecutivo sarà la corte costituzionale, la cui imparzialità non è granitica. Gran parte dei suoi 15 giudici sono considerati in quota Fidesz, il partito egemonico di Orbán, al potere dal 2010.

Il timore emerso in queste ore è che i superpoteri che il primo ministro si è assegnato siano il colpo di grazia allo stato di diritto, il passaggio che sancisce la dittatura. Inquieta che sarà lui stesso a decidere quando riaprire il parlamento, e spaventa la norma – una scure sul giornalismo – che prevede la reclusione fino a cinque anni per chi diffonde informazioni false sulla pandemia.

La stretta di Orbán fa scaturire una legittima preoccupazione sul futuro di Budapest, persino sulla sua collocazione in Europa. Ma nella sostanza, nella logica dei pesi e dei contrappesi, non molto cambia. Orbán e Fidesz, dal 2010, hanno lentamente svuotato la democrazia. I contropoteri, occupati, sono divenuti pilastri del potere. Resiste qualche minoranza critica intellettuale, un minimo di libera stampa e la possibilità di fare opposizione in parlamento, benché sia un’opposizione fondamentalmente morale. Fidesz vanta una maggioranza dei due terzi: può tutto, o quasi. Orbán dunque non avrebbe bisogno di poteri senza limiti. Perché allora governare per decreto?

In questi dieci anni, il primo ministro ha costruito il proprio consenso dichiarando guerra a nemici ben identificabili. Il Fondo monetario internazionale, i migranti, George Soros, l’élite europeista. Adesso deve contrastarne uno imprevedibile, ma molto più pericoloso di tutti gli altri. Il coronavirus può causare tante vittime (nel momento in cui scriviamo sono 15 i morti in Ungheria) e portare al collasso il sistema sanitario, notoriamente fragile, oltre che l’economia. E ciò potrebbe implicare tagli al sistema di welfare, molto generoso, che il governo ha messo in campo strada facendo. È un motore fondamentale e concreto del consenso.

Davanti a un nemico sfumato, Orbán ha forse avvertito il bisogno di trovarne uno che abbia un nome e un cognome. E l’ha individuato nell’opposizione. I suoi parlamentari erano disposti a votare per le misure speciali, a patto che fosse indicato un termine per la loro fine. Orbán li ha attaccati duramente, spiegando che la scelta è tra stare con il paese o stare con il virus. Ed ecco creato l’avversario fisico di cui aveva bisogno. Orbán, se le cose dovessero mettersi male, potrà spostare l’attenzione sulle colpe di chi, a suo dire, non ha voluto spendersi per l’unità nazionale.

Al tempo stesso, la sospensione del parlamento e il governo per decreto sono un messaggio a chi, dentro l’area di governo, aveva storto il naso davanti all’iniziale approccio di Orbán alla pandemia, che è stato di netta sottovalutazione. Il surplus di poteri blinda la centralità del primo ministro, disincentivando le potenziali fronde. I sondaggi indicano che la scelta di “militarizzare” la crisi pandemica premia. La maggioranza degli ungheresi appoggia la linea del governo. Su quando durerà e su come evolverà, internamente e nei rapporto con l’Ue, è difficile fare una previsione.

Oltre a quella dell’Ungheria, nell’area Visegrád è la Polonia a far parlare di sé per la gestione politica della pandemia. A tenere banco è la volontà del governo di non cancellare le elezioni presidenziali del 10 maggio, nonostante il rischio sanitario che comportano e il fatto che il lockdown, attuato circa due settimane fa e destinato ancora a durare, impedisce una campagna elettorale vera.

Il motivo alla base della mancata cancellazione è di puro potere. Andrzej Duda, salito a palazzo nel 2015, è destinato a essere rieletto. Anche se nel corso del mandato ha cercato a volte di smarcarsi, Duda resta legato intimamente a Diritto e Giustizia (PiS), il partito populista che esprime il monocolore di governo. Alle elezioni politiche dell’ottobre 2019 si è confermato alla guida del paese, ma non ha più una maggioranza parlamentare schiacciante, tale da ribaltare un veto presidenziale. Duda è il grande favorito, e il rischio di un presidente ostile non si intravede. Ma se il voto fosse spostato molto in là nel tempo e se la pandemia nel frattempo causasse lutti, caos negli ospedali e decrescita economica infelice, costringendo il governo a ridimensionare il poderoso welfare, copiato da Budapest, per Duda e il PiS potrebbe aprirsi uno scenario avverso. La presidenza sarebbe a rischio, e con essa l’agenda populista, o non liberale che dir si voglia, che il PiS porta avanti.

Meglio evitare ogni sorpresa: questo il possibile ragionamento del primo ministro Mateusz Morawiecki e del leader del PiS, Jarosław Kaczyński, per molti il vero padrone della Polonia. Pur di tenere il voto il potere ha fatto votare al parlamento, qualche giorno fa, nel cuore della notte, una modifica alla legge elettorale che permetterà il voto per corrispondenza a chi ha più di sessant’anni o a chi quel giorno sarà in quarantena. Un modo per ridurre i rischi sanitari, che resterebbero comunque alti.

Ora si tratta di vedere se la riforma è costituzionale. In teoria no: la legge elettorale non può essere ritoccata così a ridosso del voto. Ma la corte costituzionale (Tribunale costituzionale), come in Ungheria, è di fatto un’espressione della maggioranza. Dunque, potrebbe convalidare quello che ai più appare come un colpo di mano dovuto al primato degli interessi di partito su ogni altra cosa, compresa la salute dei cittadini.

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