3 Apr 2020

Cina: Ripartire è un’altra cosa

Coronavirus

Mentre imperversa la polemica sull’affidabilità delle comunicazioni ufficiali cinesi sull’evolversi dei contagi nel paese, che Pechino dichiara finiti da giorni (secondo la Beijing Health Commission), il governo ce la sta mettendo tutta per mostrare che l’economia cinese è ripartita. I dati ufficiali indicano una riapertura diffusa delle attività produttive, del traffico stradale, del 98% delle società quotate (secondo la China Security Regulatory Commission), dell’89% dei lavori nei grandi progetti infrastrutturali (secondo la National Development and Reform Commission).

Ma in realtà niente è ancora tornato come prima. Anche se la fiducia delle imprese e l’indice degli acquisti hanno ripreso un po’ di vigore rispetto al mese precedente (che però era sostanzialmente ai livelli più bassi di sempre), gli indicatori come il tasso di riapertura delle fabbriche e la percentuale di lavoratori rientrati sul lavoro non sono molto utili per capire se e come la Cina stia uscendo dallo stallo. È vero che molte aziende hanno riaperto i battenti, e alcune sono prossime a ritornare a pieno ritmo, sia cinesi sia straniere, grandi e piccole. Ma tra il riaprire e il ripartire c’è di mezzo il mare.

Innanzitutto, non è vero che tutto sta riaprendo: le piccole aziende, il commercio al dettaglio, la ristorazione, i trasporti, l’entertainment sono ancora fermi, la quarantena non è del tutto finita e molti milioni di cinesi sono ancora segregati in casa. Le misure di policy introdotte per ora hanno privilegiato l’offerta: il Politburo ha approvato un pacchetto di investimenti in infrastrutture pari a circa 180 miliardi di dollari già per il 2020 e una riduzione del tasso di interesse sui prestiti.

Ma questa crisi è senza precedenti perché è al contempo una crisi di offerta e una crisi di domanda. E Pechino non si è mai dimostrata molto abile nel gestire la domanda. Perché ha sempre preferito gli strumenti imperativi (obblighi e divieti) rispetto agli incentivi che, a differenza dei primi, hanno bisogno di una motivazione. Se dal lato dell’offerta l’allentamento ulteriore del credito e i sussidi possono funzionare, dal lato della domanda invece funzionano ben poco, perché in questo momento i consumatori cinesi hanno ancora paura del contagio, e sono ancora in gran parte costretti dalle misure di distanziamento sociale, che si traduce anche in minor consumo. E il timore di una seconda ondata di contagi, come sta avvenendo a Hong Kong e in Giappone, è confermata dall’atteggiamento guardingo e prudente del governo stesso, che ha chiuso le frontiere e mette in quarantena anche tutti i cinesi che entrino o rientrino.

Se anche gli sforzi di Pechino riuscissero a far ripartire presto la domanda interna, pressoché ferma dalla fine del 2019, a nulla potrebbero per resuscitare la domanda estera, da cui buona parte della produzione cinese ancora dipende. I dati mostrano che solo una minima parte dell’export ha ripreso. Nella terza settimana di marzo il traffico cargo dei grandi porti di Shenzhen e Guangzhou nel sud della Cina è aumentato del 20% rispetto alla settimana precedente: ciò vuol dire che è ancora rasente a zero, e non invece che la produzione del Pearl River Delta, la più importante regione manifatturiera del paese, ha ripreso a produrre. In tutto ciò, la chiusura delle frontiere cinesi agli stranieri mette a rischio la ripresa dell’operatività delle imprese estere in Cina, nel breve ma anche nel medio periodo, e in parte anche la stessa produzione cinese cui la prima è collegata. Al più quello che può riaprire è il grande settore della produzione controllata dallo Stato, che però potrà iniziare a produrre anticipando i futuri ordini, ma ha bisogno anch’esso di una domanda in rapida crescita, cosa che adesso neppure si intravede.

Nell’insieme, sarà difficile per il paese tornare a pieno ritmo in tempi brevi, contrariamente a quanto immaginato all’inizio dell’anno quando ancora si sperava che la crisi restasse confinata alla Cina o a pochi altri paesi asiatici. La ripresa a V – cioè con uno o due trimestri di forte recessione, seguita da una ripresa – oggi appare improbabile. A un primo trimestre pesantemente negativo – -9% secondo Nomura – e un secondo a crescita zero nella migliore delle ipotesi, difficilmente potrà seguire una ripresa vigorosa, se la crisi nel resto del mondo si prospetta ancora lunga.

Purtroppo l’esperienza delle passate recessioni non aiuta a produrre scenari utili, perché il precedente storico di riferimento è la pandemia provocata dalla cosiddetta influenza ‘Spagnola’ nel 1918-1920. È vero che a quel tempo non c’erano gli antibiotici e neppure sistemi sanitari come quelli dei nostri giorni, ma è altrettanto vero che il virus oggi ha viaggiato rapidamente in tutto il mondo per l’elevatissima mobilità delle persone, mentre allora viaggiava molto meno e molto più lentamente. Eppure, il virus infettò un quarto della popolazione mondiale, in tre ondate successive, e la prima non fu la peggiore. La recessione a quel tempo durò ‘solo’ sette mesi (negli Stati Uniti), ma questo non ci può aiutare a capire quanto potrà durare quella che è iniziata in questi mesi, perché l’interdipendenza della produzione e dei mercati oggi è enormemente più elevata, il che significa che si può davvero ripartire a pieno ritmo soltanto tutti insieme.

A meno che la Cina non decida di ripartire sotto tono da sola, isolandosi e riducendo le importazioni, non solo per il blocco momentaneo della produzione estera, ma anche per un certo atteggiamento ritorsivo che spesso mostra nei confronti delle imprese estere che non si dimostrano abbastanza accondiscendenti con le posizioni ufficiali cinesi, come nel caso di un produttore veneto di prosecco che si è visto annullare gli ordini dalla Cina dopo una campagna sfavorevole sui social cinesi, indignati della sua richiesta di danni economici per la pandemia che dalla Cina senza dubbio è partita.

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