2 Apr 2020

Catene del valore: Beni essenziali a raggio europeo

CoVid-19

Se non fosse per le fonti autorevoli, sarebbe difficile da credere. Il Paese che ha dovuto ridurre l’export di acciaio verso gli Stati Uniti per evitare le tariffe minacciate dal Presidente Trump[1], la Corea, esattamente due anni dopo oggi viene invitato a esportare più dispositivi medici verso gli States[2].

Con l’emergenza coronavirus gli Stati Uniti, come molti altri Paesi si sono trovati infatti con ospedali senza respiratori e con operatori sanitari senza adeguati dispositivi di protezione. I principali produttori di dispositi medici, dall’Asia all’Europa, non hanno potuto o hanno dichiarato di non volere soddisfare la crescente domanda internazionale in quanto anch’essi colpiti dalla pandemia. Sul fronte alimentare, alcuni grandi produttori hanno dichiarato di voler ridurre l’export (Russia e Kazakhstan per il grano, Vietnam per il riso, Serbia per l’olio di girasole). Alcuni divieti all’esportazione sono rientrati anche per effetto dell’azione a livello di G20[3] e di Unione Europea[4]. Rimane il fatto che, quando entrano in gioco la sicurezza nazionale e la salute dei cittadini, gli stati possono alzare barriere come previsto in contesti favorevoli al libero commercio quali il WTO (artt. XXI e XX del GATT) e l’UE (art. 36 del TFEU).

L’emergenza coronavirus non è ancora (ahimè) terminata, ma è già tempo di trarre qualche insegnamento. Ovvero che è tempo di ripensare la geografia delle catene del valore, soprattutto per i beni essenziali.  Ed è tempo porsi due domande importanti. Quando rimpatriare la catena del valore? Quando è necessario avere una catena del valore sufficientemente corta per garantire i prodotti o servizi (beni) essenziali?

 

Accessibilità ai beni essenziali da garantire

Innanzitutto è importante stabilire quali siano effettivamente i beni essenziali. Di norma essenziale è quello che serve a soddisfare i bisogni fisiologici e di sicurezza delle persone[5] e, per uno stato, a offrire i relativi prodotti e servizi, a garantire le condizioni di offerta e comunque a essere il responsabile di ultima istanza. La mancata disponibilità di un prodotto (es. cibo, medicine) o di un servizio essenziale può destabilizzare l’ordine pubblico. Nella UE, per esempio, sono considerati essenziali i cosiddetti servizi di interesse generale per i quali i paesi ne garantiscono l’universalità e l’accessibilità. Si pensi ai servizi energetici, ai servizi postali di base e all’assistenza sanitaria.

Le catene del valore possono essere molto complesse dove un bene essenziale è composto da servizi e prodotti finali a loro volta composti da prodotti intermedi. Ad esempio, l’industria alimentare, e il relativo commercio, richiede un’attività di imballaggio e la realizzazione dei relativi prodotti e macchine, con la relativa manutenzione e componentisca.

Le filiere produttive di ciascuna attività economica si possono ricostruire con le tavole che analizzano le interdipendenze settoriali di un’economia[6] e, molto più pragmaticamente, cooperando con le associazioni di categoria.

Una volta definita l’essenzialità di un bene, bisogna valutare se esistono dei beni sostituti, ovvero in grado di soddisfare in maniera analoga lo stesso bisogno. Un bene essenziale con un dato rapporto produttività/prezzo può avere un bene sostituto con un rapporto produttività/prezzo uguale o inferiore (se il rapporto del sostituto fosse superiore, si utilizzerebbe quest’ultimo). Se il prodotto essenziale è, per esempio, un paio di occhiali protettivi, anche uno schermo facciale che copre tutto il volto, anche se più costoso, può essere considerato un bene sostituto in quanto svolge la stessa funzione. Affinchè i due prodotti siano considerati sostituti, la differenza nel rapporto produttività/prezzo deve essere proporzionale al grado di essenzialità e alla capacità finanziaria dello stato che agisce da fornitore di ultima istanza. Detto più semplicemente, solo uno stato con adeguate risorse e un bisogno urgente è disposto a spendere di più per acquistare un sostituto di un bene essenziale.

In caso di carenza del bene essenziale, i produttori di altri beni potrebbero essere in grado di convertire la catena produttiva per realizzare il bene essenziale. Ovviamente la conversione deve essere sufficientemente tempestiva, ovvero la disponibilità del bene essenziale non deve subire un’alterazione quantitativa e/o qualitativa tale da pregiudicare il servizio ai cittadini. Come nel caso della sostituibilità dal lato della domanda, gli extra-costi legati alla conversione sono, in ultima istanza, a carico il soggetto pubblico. Per esempio abbiamo scoperto che le aziende che producono aspirapolveri possono, con relativa facilità, produrre respiratori[7].

 

La disponibilità dei beni
Per anni la globalizzazione ha permesso di distribuire geograficamente la catena del valore per ridurre i costi di produzione. Tuttavia, in tempi ‘normali’ la fluidità del commercio fa sì che la nazionalità dei beni essenziali non sia significativa, soprattutto quando i paesi coinvolti sono economie di mercato e membri di accordi multilaterali, regionali e bilaterali.

Con l’emergenza Coronavirus abbiamo scoperto la debolezza delle catene del valore internazionalizzate dovuta alla concentrazione della produzione (la maggiorparte dei guanti medici è prodotta in Malesia, quella delle mascherine in Cina), alla dimensione mondiale dell’aumento di domanda (uno shock simmetrico) e al fatto che gli stessi paesi produttori sono stati colpiti dalla pandemia, riducendone la capacità produttiva e determinando un interesse a controllare l’export di beni essenziali.

 

Quale patria per i Paesi dell’Unione Europea?
Il mercato unico offre una grande opportunità ai paesi europei che possono specializzarsi e commerciare liberamente sfruttando i diversi vantaggi comparati.

Le recenti dichiarazioni di Germania e Francia (e non solo) volte a vietare l’esportazione di materiale medico anche verso altri membri dell’UE[8] in maggiore difficoltà per l’emergenza Coronavirus ha instaurato un clima di sfiducia nel mercato unico consolidando una dimensione strettamente nazionale per i beni essenziali.

Tuttavia soltanto pochi paesi potrebbero essere autosufficienti per i beni essenziali; ma per molti questo non sarebbe possibile (data la complessità delle filiere produttive e la dimensione del Paese) e comunque non è conveniente (date le economie di scala di molte produzioni).

Se la dimensione globale è troppo rischiosa e la dimensione nazionale può non essere sufficiente, la dimensione geografica dei beni essenziali deve essere, ove possibile, europea. Prova ne è il fatto che il governo britannico della Brexit ancora rimpiange di non essere riuscito a partecipare ad un bando europeo per l’acquisto di respiratori salvavita[9].

Per garantire la dimensione europea per questi beni, bisogna essere sicuri che i paesi non ereggano barriere soprattutto nel momento di maggior bisogno. Questo è possibile soltanto con una maggiore integrazione politica. Una chimera, soprattutto di questi tempi. Ma l’UE ha dimostrato in passato di trasformare momenti di crisi in occasioni di avanzamento lungo la dimensione dell’integrazione. La drammaticità di questa emergenza può essere uno di quei momenti.

 

 

[1] CNBC, 25 marzo 2018 (link)

[2] Reuters, 25 marzo 2020 (link)

[3] Reuters, 30 marzo 2020 (link)

[4] Il 16 marzo 2020 la Commissione UE pubblica “ COVID-19. Guidelines for border management measures to protect health and ensure the availability of goods and essential services”. C(2020) 1753 (link)

[5] Nello stabilire questa gerarchia ci si è rifatti alla cosidetta piramide dei bisogni descritta da Abraham Maslow nel libro Motivation and Personality del 1954.

[6] L’idea si deve all’economista Wassily Leontief, vincitore del Premio Nobel nel 1973. L’Istat pubblica annualmente le tabelle relative all’economia italiana (link)

[7] The Guardian, 26 marzo 2020 (link)

[8] Reuters, 6 marzo 2020 (link)

[9] Politico, 26 marzo 2020 (link)

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