3 Apr 2020

Turismo: competitività più feroce tra città, che fare?

Coronavirus

Se c’è un settore travolto dal Coronavirus è il turismo. Quando muoversi diventa un pericolo, e chi si sposta è stigmatizzato, viene infatti a mancare la reason why di tutto il comparto. Potrebbe sembrare un fatto marginale, vista l’emergenza sanitaria che tutto il mondo sta vivendo, ma non è proprio così: parliamo di un giro d’affari che, nel 2017, costituiva più o meno il 10% del Pil globale. Il che significa ovviamente decine se non centinaia di milioni di lavoratori, tra impieghi diretti e indotto. Secondo l’Organizzazione mondiale del turismo (ONU), l’impatto di Covid 19 può essere stimato nel 2020 tra il 20% e il 30% di flessione sul valore complessivo. Per capirci, tra i 350 e 400 miliardi di dollari in meno rispetto all’anno precedente. Tanto per fare un confronto, il calo dovuto alla crisi economica fu nel 2009 intorno al 4%, mentre quello successivo alla SARS nel 2003 fu di appena lo 0,4%. Insomma, una vera e propria catastrofe per un settore trainante, e fino a ieri in ampia espansione, dell’economia mondiale.

Ma l’onda dello tsunami non colpisce in modo omogeneo. Paesi come l’Italia, o continenti come l’Europa, rischiano di pagare un prezzo salatissimo. Le città potrebbero perdere un asset fondamentale. Per immaginare la ripartenza – soprattutto se con il virus dovessimo imparare a “convivere” per un periodo medio-lungo – occorre porsi le domande giuste e provare a mettere in campo soluzioni adeguate. Come tamponare l’emergenza? Che profilo avranno i turisti di domani? Come andrà ristrutturata l’offerta a livello urbano?

La prima risposta all’emergenza dovrà necessariamente essere pubblica. Gli stati dovranno immettere liquidità nel settore – con strumenti complementari come i sussidi e la sospensione delle scadenze fiscali – imponendo alle grandi multinazionali dello “sharing tourism” di fare altrettanto. In queste ore moltissimi gestori di strutture affrontano un contenzioso con piattaforme tipo Airbnb, che garantiscono ai propri clienti un rimborso totale del viaggio mancato anziché garantire un semplice voucher: una contesa impari, dal momento che queste aziende sono multinazionali con la sede legale in un altro paese. A questo proposito, bisogna tener conto di un elemento fondamentale: quattro imprese su cinque che nel mondo operano in questo ambito sono piccole o medie, e dunque esposte a tensioni finanziarie e crisi di cassa. Ma le misure a sostegno del comparto possono essere numerose e creative: per esempio, in molti paesi i lavoratori stanno prendendo ferie “obbligatorie” in queste settimane, riducendo il montante complessivo. Gli operatori chiedono alle istituzioni di proclamare una “moratoria” nel conteggio, che consenta alle persone di programmare viaggi nei prossimi mesi.

 Successivamente, andrà analizzata la nuova composizione della domanda. Molto interessante in questo senso una recente indagine dell’Ipsos sul turismo in Italia – primo paese occidentale colpito dal coronavirus. I dati ci spiegano che il numero di persone intenzionate a confermare le proprie vacanze primaverili o estive si è ridotto di un quarto. Il 15% (sul totale dei vacanzieri ante-virus) è incerto sul da farsi, mentre il 10% ha definitivamente rinunciato ai propri progetti. Interessante è però notare che questa percentuale non è omogenea né per fasce d’età né per regione di provenienza: tra gli over 45 e nelle regioni più colpite dal virus, quelle del Nord, ha annullato le ferie circa una persona su due. Quindi, è legittimo aspettarsi nei prossimi mesi una domanda più giovane, e proveniente dalle aree del mondo meno colpite dal Covid.

Ma il riassetto non sarà soltanto su base anagrafica e di provenienza. È plausibile attendersi evoluzioni diverse da parte dei differenti “turismi”: quello naturale (montagna, mare, agriturismo, terme, sport); quello professionale (affari, congressi e fiere); quello scolastico, quello religioso e quello orientato verso le città. Se la densità rimanesse il principale stimolo alla diffusione del virus, è ragionevole prevedere un calo dei viaggiatori nei centri urbani e un’impennata dello smart working anche nell’ambito del business, ivi compresi congressi e fiere (a grande detrimento del prezioso networking per cui tali occasioni vanno per la maggiore). Le città sono dunque, o potrebbero essere, il cuore di questa crisi epocale, subito dopo anni di boom straordinario.

Le conseguenze della pandemia

Il danno potenziale è gigantesco. Basti pensare che, negli ultimi anni, il turismo era diventato un fenomeno talmente esteso in molte realtà europee da essere considerato un problema: Barcellona, con 32 milioni di turisti nel 2017 a fronte di una popolazione di 1,6 milioni, per fare un esempio, oppure Amsterdam. Ma il dibattito su questo argomento andava sviluppandosi pure in grandi global city come Hong Kong, Singapore, Londra o Parigi. O in circostanze irripetibili ma certamente “globali” come Venezia.

La competizione si farà davvero feroce – possiamo esserne sicuri – ed è fondamentale immaginare i binari lungo i quali correrà. Si possono avanzare alcune ipotesi che in questa fase possono essere fornire spunti di riflessione:

  • Le varie global city dovranno investire tanto e bene in comunicazione. I turisti potenziali nel mondo saranno ancora più esigenti di quanto lo sono stati finora, perché oltre alle attrazioni e ai servizi erogati vorranno informazioni legate alla propria sicurezza e salute.
  • In questo senso, la spesa in sanità, rigenerazione urbana (non solo a livello di edilizia pubblica, ma anche privata) e risanamento ambientale potrebbe rivelarsi cruciale: le persone si orienteranno verso le aree urbane più capaci di garantire pulizia, efficienza e percezione di salubrità.
  • Le infrastrutture urbane dovranno essere ripensate alla luce della pandemia. A cominciare dagli aeroporti: strumenti per lo screening, dispositivi di protezione e di igienizzazione saranno necessari per fare sentire a proprio agio chi si sposta, oltre alla distanza di sicurezza che va garantita per non contagiarsi.
  • La mobilità alternativa sarà un punto di forza: andare a piedi o in bicicletta è assai consigliabile contro il coronavirus – oltre che in generale.
  • Sarà fondamentale conservare l’anima delle città. Che cosa sarebbe Parigi senza la rive gauche, Berlino senza Prenzlauer Berg, New York senza Soho, o Rio de Janeiro senza Ipanema? Ma questi luoghi sono i più a rischio: gli esercizi commerciali indipendenti, l’industria creativa e le attività culturali, i piccoli ristoranti e bistrot rischiano di essere spazzati via dalla crisi economica e sanitaria prima e più degli altri. Perciò è interesse delle amministrazioni pubbliche fare in modo che quelle sfumature, colori e aromi non vadano dispersi. Pena un drastico calo di fascino.
  • Come scritto sopra, la fascia di età 16-45 potrebbe trasformarsi nel target di riferimento principale, il che porta con sé un’esigenza imprescindibile di innovazione, tecnologia e creatività, che hanno fornito nel turismo molte best practice negli anni recenti (realtà virtuale e aumentata, 3D, ecc.).
  • Alcuni cluster andranno profondamente ristrutturati: i grandi eventi sportivi, ludici o congressuali potrebbero essere del tutto impraticabili. Ciò richiede una progettualità sia in ambito infrastrutturale (come riconvertire stadi, fiere o convention center) sia economico (eventi più piccoli ma a maggiore valore aggiunto).
  • Infine, esiste un rischio micro-criminalità ed esclusione sociale. Le comunità meno in grado di tutelare le fasce più deboli della popolazione saranno prevedibilmente più esposte alla criminalità e al virus, con il conseguente allontanamento dei turisti.

In conclusione, possiamo formulare tre domande generali: 1, Il coronavirus è un avversario temibile per il turismo di massa? 2. Investendo in qualità, le città supereranno la crisi? 3. Riusciranno a farlo senza pregiudicare in modo irrimediabile quel “diritto alla bellezza per tutti” che pensavamo ormai definitivamente acquisito, anche se in effetti “tutti” non sono mai stati proprio tutti?

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