2 Apr 2020

L’ipatto del coronavirus sulla filiera della moda

CoVid-19

Il settore della moda e del lusso è stato uno dei grandi protagonisti del processo di globalizzazione. La produzione dell’abbigliamento si è progressivamente strutturata, nel corso degli anni, in complesse catene del valore, con accordi commerciali di libero scambio che hanno via via permesso la creazione di mercati internazionali di produzione e consumo fortemente interdipendenti e integrati.

Il coronavirus, con i suoi effetti profondi sulle catene globali del valore, porterà probabilmente a una altrettanto profonda ristrutturazione del settore, con conseguenze di lunga durata che andranno ben oltre gli effetti derivanti dall’attuale blocco della produzione e dei consumi. Nel corso del 2020, i ricavi del settore sono previsti scendere tra il 25 e il 35%, secondo il più recente studio di Boston Consulting Group. Considerando che il settore della moda e del lusso fattura a livello globale circa 1,6 trilioni di dollari, a livello assoluto la perdita potrebbe aggirarsi tra i 450 e i 650 miliardi di dollari. Diversamente dalla recessione del 2009, dove la crisi finanziaria determinò progressivamente una crisi della domanda e minò la fiducia dei consumatori, nell’attuale situazione – oltre ad una crisi della domanda – si sommano le criticità dal lato dell’offerta, con chiusure obbligate dei punti vendita a causa dei lockdown nazionali e al fermo della produzione in molti paesi. La crisi globale ha causato ritardi di più di due settimane nelle consegne delle collezioni primaverili, determinando spesso il mancato pagamento del corrispettivo, la restituzione della merce e il congedo di molti lavoratori del settore, così come l’annullamento delle principali sfilate internazionali ed eventi del settore, luoghi privilegiati per l’incontro tra domanda e offerta.  

In questa situazione, una delle regioni più colpite sarà l’Europa meridionale, con cali di fatturato previsti dell’85-95% tra marzo e maggio, con ripresa prevista solo nell’ultimo trimestre. Lo stesso Nord America registrerà un calo tra il 75% e l’85% fino a maggio, per poi iniziare una probabile ripresa nella seconda metà dell’anno e chiudere con una riduzione delle vendite annuali nell’ordine del 10% rispetto al 2019. Al contrario, la Cina potrebbe avvantaggiarsi di una ripresa più rapida: dopo il crollo delle vendite al culmine della crisi a febbraio (con diminuzioni tra il 75% e l’85% rispetto all’anno precedente), a livello annuale si prevede una riduzione tra il 5% e il 10%; una flessione contenuta ma comunque importante per un mercato che è solito registrare incrementi a doppia cifra.

 

Tre conseguenze per il settore

Tre sembrano essere le principali conseguenze di lunga durata per il settore della moda e del lusso.
La prima, e più intuitiva, è l’effetto sui consumi dei beni di lusso derivato dalla contrazione del reddito disponibile. In una fase di recessione economica, le prime rinunce andranno a intaccare i beni di lusso, in particolare nella fascia dei redditi medio-alti.
La seconda conseguenza determinerà probabilmente un profondo cambiamento nelle catene internazionali del valore, che tenderanno a ridursi nella distanza, a ritrovare cioè una dimensione continentale o nazionale, piuttosto che globale. Soprattutto nel settore dell’abbigliamento di lusso, infatti, il capo finito è il risultato di diverse componenti che arrivano molto spesso da svariate parti del mondo: un fatto che può determinare profondi ritardi o, addirittura,  l’impossibilità di produrre nel caso di un evento pandemico.  In questo senso, le grandi case di moda e designers hanno già iniziato a rivalutare le proprie catene di fornitura globali come conseguenza della pandemia in atto. È un processo che subirà un’accelerazione, ma che aveva registrato le prime avvisaglie già a fronte delle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti del 2018-2019. La crisi commerciale, infatti, aveva messo in luce i rischi dell’eccessiva interdipendenza quando i flussi vengono alterati da improvvise misure tariffarie che vanno a cambiare precedenti equilibri di produzione e consumo. Con probabilità, si potrà quindi assistere a fenomeni di reshoring, cioè di reimportazione delle produzioni in precedenza delocalizzate all’estero, tendendo verso catene del valore più concentrate geograficamente.
Terza conseguenza: la pandemia potrebbe rendere strutturale la tendenza in atto verso la digitalizzazione del settore, con acquisti che si potrebbero concentrare e spostare su piattaforme digitali, a possibile danno dei negozi locali.

 

E l’Italia?

Per l’Italia, uno dei centri mondiali del settore lusso e abbigliamento, tutte queste considerazioni si applicano con ancora maggiore forza.  L’industria italiana della moda nel corso del 2019 ha registrato ricavi per 66,8 miliardi di euro, che salgono a 98,5 miliardi se si considera l’intero comparto tessile, con un indotto che occupa 615 mila persone. Non è un caso che si siano moltiplicate le voci e le richieste al Governo di inserire il settore tra quelli maggiormente colpiti dall’epidemia di coronavirus. Il Nord Italia, in particolare, rappresenta il 60% della produzione tessile e dell’abbigliamento del paese, ospitando le sedi di aziende quali Prada, Armani, Versace, Bottega Veneta ma anche siti produttivi di gruppi internazionali come Louis Vuitton.  Solo quest’ultimo gruppo ha 30 siti produttivi in Italia e il gruppo internazionale Kering ha in Italia l’88% dei propri fornitori.

Alcuni gruppi, come Armani, hanno momentaneamente riconvertito la produzione dei propri siti nazionali in abbigliamento protettivo per il personale sanitario impegnato nell’emergenza. Molte aziende del settore non hanno completamente chiuso, preferendo sospendere la produzione, mantenendo tuttavia operative (in smart working) le divisioni commerciali, in modo da non perdere irreversibilmente le relazioni con i principali clienti. La crisi ha colpito in un momento molto delicato, proprio quando dovevano essere vendute e consegnate le collezioni della primavera-estate, che naturalmente avevano richiesto ingenti investimenti da parte delle aziende.

Nel lungo periodo, anche per l’Italia, la tendenza potrebbe essere verso una  diminuzione della frammentazione del processo produttivo, riportando in Italia parte della produzione delocalizzata in Cina; in alternativa, in un’ottica di vicinanza regionale, l’Europa dell’Est e la Turchia potrebbero sostituire parti della produzione attualmente in Cina. Si tratterebbe sostanzialmente di diversificare le possibili fonti di approvvigionamento e mitigare i rischi in situazioni di emergenza. Con la speranza che il contenimento dell’epidemia in Cina possa riaprire progressivamente uno dei principali mercati di sbocco del Made in Italy, una volta che la produzione nazionale potrà essere riavviata. Tuttavia, la strada della ripresa per il settore è ancora in salita, e solo a emergenza finita si potranno contare veramente i danni e si potrà iniziare a vedere la luce in fondo al tunnel.

 

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