24 Mar 2020

L’Africa alla prova del Coronavirus

ISPI Watch

Come si temeva, e come ci si aspettava, nemmeno l’Africa subsahariana è stata risparmiata dalla pandemia di ‘nuovo coronavirus’. Benché i numeri – o almeno, quelli noti – siano fin qui tutto sommato contenuti, sono pochi gli stati africani estranei al contagio. La rapida diffusione del Covid-19 nel subcontinente alimenta preoccupazioni diffuse: se i primi casi erano essenzialmente correlati ai focolai di contagio emersi in Europa – un cittadino italiano giunto in Nigeria in partenza da Milano il ‘paziente zero’ in Africa subsahariana – tanto da alimentare una caccia all’untore europeo in diversi paesi, a spaventare ora è l’attivazione di catene di contagio locali, che aggravano le prospettive di propagazione capillare dell’epidemia e minacciano di mettere a dura prova le capacità di gestione e di risposta africane.

 

Misure in campo

Sotto questo profilo, la fragilità dei sistemi sanitari, in un continente dove i posti di terapia intensiva sono drammaticamente limitati – meno di 1.000 in Sudafrica, ad esempio, che dispone di uno dei migliori sistemi continentali – costituisce uno degli aspetti di debolezza più preoccupanti, guardando alle necessità di prevenzione, diagnosi, controllo in situazioni di emergenza. Gli sforzi posti in essere nelle scorse settimane dai governi africani sono però incoraggianti. Se inizialmente due sole strutture sanitarie, in Senegal e Sudafrica, risultavano attrezzate a effettuare i test per l’accertamento dei casi di contagio, la capacità del continente è stata rapidamente rafforzata e il numero di paesi “pronti” portato a 43, grazie al supporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Per voce della direttrice dell’Ufficio Africa, Matshidiso Moeti, l’organizzazione aveva, nel corso delle settimane precedenti, enunciato l’obiettivo di garantire che tutti gli stati membri potessero disporre della capacità di diagnosticare i casi di Covid-19, trattare i pazienti in isolamento e fornire loro le cure adeguate in tempi brevi, in previsione di un possibile outbreak dell’epidemia. A tale scopo, l’Africa Center for Disease Control and Prevention (CDC) e l’Unione Africana avevano approntato la costituzione di una task force continentaleAfrica Task Force for Novel Coronavirus (AFCOR) – guidata da Marocco, Sudafrica, Senegal, Nigeria e Kenya, per supervisionare i progressi nell’ampliamento della capacità di risposta all’epidemia e garantire l’aiuto e il supporto tecnico-sanitario necessari ad affrontare gli eventuali casi di contagio. Cinque i pilastri su cui poggia l’iniziativa: sorveglianza (screening e controlli in entrata); prevenzione dell’infezione e controllo nelle strutture sanitarie; gestione clinica dei pazienti contagiati; diagnosi laboratoriale; comunicazione dei rischi e impegno a livello comunitario.

 “The best advice for Africa is to prepare for the worst and prepare today”. Il direttore generale dell’OMS, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha messo così in guardia i governi africani, paventando il rischio concreto che un certo numero di casi non sia stato a oggi diagnosticato e che, guardando alla rapidità di diffusione della pandemia nel mondo, ci si debba attendere un’evoluzione preoccupante in tempi brevi. L’adozione di misure restrittive da parte di un numero crescente di governi riflette tali timori. Alla iniziale sospensione dei voli che ha riguardato la Cina, con Ethiopian Airlines tra le poche compagnie a continuare a garantire i collegamenti aerei con le città cinesi, ha fatto seguito l’adozione di provvedimenti restrittivi e precauzionali – dai controlli medici rafforzati alle quarantene obbligatorie fino ai divieti di ingresso – nei confronti di viaggiatori provenienti dalle zone più colpite dal virus, tra cui l’Italia. Infine, la moltiplicazione dei focolai di contagio nel continente ha convinto le autorità politiche di diversi stati ad adottare misure di lockdown del tutto simili a quelle poste in essere in Europa. Il capo di stato senegalese Macky Sall, è stato tra i primi a ordinare la chiusura di scuole e università per tre settimane e la cancellazione delle principali manifestazioni religiose in programma nel paese, mentre in Sudafrica Cyril Ramaphosa ha dichiarato lo stato di “disastro nazionale”, annunciando severe disposizioni di contenimento (chiusura di scuole, restrizioni di viaggio, divieto di assembramenti). Numerosi altri stati hanno seguito l’esempio di Dakar e Pretoria. Il Rwanda di Paul Kagame, in ultimo, ha deciso la chiusura totale del paese, a esclusione dei servizi essenziali e di emergenza.

 

Le economie più a rischio

Un ulteriore fattore di allarme per il continente riguarda le ricadute economiche della crisi sanitaria globale. La Commissione Economia delle Nazioni Unite per l’Africa ha stimato – ottimisticamente, secondo molti osservatori – una contrazione delle previsioni di crescita media del Pil africano dal 3,2% all’1,8%, a causa dell’interruzione delle catene globali del valore, della crisi dell’industria energetica e turistica, del crollo delle rimesse. La perdita di introiti fiscali, inoltre, sarebbe suscettibile di determinare un aumento insostenibile del debito, con conseguenze destabilizzanti. Gli shock della domanda di petrolio potrebbero causare perdite per circa 65 miliardi di dollari per gli stati produttori africani: in media, tra il 2016 e il 2018, il 7,4% del Pil continentale è dipeso dal settore degli idrocarburi, con proventi da esportazione per circa 166 miliardi di dollari annui. L’impatto del Covid-19 sull’industria estrattiva potrebbe risultare in un calo verticale degli introiti per il 2020, portando il totale a 101 miliardi di dollari secondo le previsioni ECA. A essere colpiti saranno soprattutto paesi come l’Angola, dove il petrolio rappresenta l'89% dell’export, occupando una quota di Pil del 30% circa; la Nigeria, che vede gli idrocarburi costituire il 92% delle esportazioni e contribuire per l’11% al Pil nazionale; il Sudafrica, che pur contando su una maggiore diversificazione produttiva, esporta risorse energetiche per 9 miliardi di dollari annui.

In particolare, gli effetti del blocco della produzione e del calo della domanda cinese costituiscono una minaccia grave per gli stati subsahariani. Due dati su tutti danno un’idea della forte interconnessione sino-africana: sono circa 200.000 i lavoratori cinesi in Africa, e intorno agli 80.000 gli studenti africani in Cina, 5.000 dei quali nello Hubei. La Cina è il principale partner commerciale dell’Africa: il volume delle transazioni commerciali nel 2018 ammontava a 204 miliardi di dollari. Il 64% dell’export africano verso la Cina (99 miliardi di dollari) ha riguardato risorse energetiche e minerarie. I principali mercati di approvvigionamento nel continente sono Sudafrica (oro, diamanti, manganese e cromo) e Angola (le importazioni di petrolio dall’Angola hanno risposto al 10% del fabbisogno cinese nel 2018), che insieme costituiscono il 53% delle importazioni cinesi dall’Africa, seguite da Repubblica del Congo (petrolio), Repubblica Democratica del Congo (minerali di cobalto e derivati, catodi di rame), Zambia (rame). Le importazioni dall’Africa hanno fatto registrare un +38% tra il 2017 e il 2018. Nel 2017, inoltre, gli stock di investimenti diretti cinesi in Africa si attestavano su 43 miliardi di dollari: dietro Francia, Paesi bassi, Stati Uniti e Regno Unito, ma in costante crescita, in termini di flussi, dal 2013. Nel settore infrastrutturale, la Cina si è accreditata come il principale investitore statale nel continente, con una media di 11,5 miliardi di dollari investiti annualmente tra il 2012 e il 2016, il 15% del totale degli investimenti infrastrutturali, concentrati soprattutto in Africa orientale, a supporto della Belt and Road Initiative (BRI) di Xi Jinping. Esempi di infrastrutture strategiche finanziate da Pechino nell’area sono la linea ferroviaria Addis Abeba-Gibuti, che collega la capitale dell’Etiopia al piccolo stato sul Mar Rosso, e quella tra Nairobi e Mombasa in Kenya. Circa 10.000, infine, in base alle stime fornite da McKinsey, sono le imprese cinesi nel continente, per la maggior parte private, un terzo delle quali attive nel settore manifatturiero seguito da quello dei servizi e delle costruzioni.

Secondo un rapporto dell’Overseas Development Institute (ODI), il Kenya risulterà verosimilmente lo stato africano maggiormente interessato dagli effetti dell’epidemia sull’economia della Cina, davanti ad Angola, Congo, Sierra Leone, Lesotho e Zambia, in ragione dell’esposizione diretta e indiretta derivante dalle strette connessioni con Pechino, in termini di relazioni commerciali, investimenti, collegamenti aerei, su cui la crisi cinese produrrà un impatto sostanziale nei prossimi mesi.

Al di là dei fattori di rischio economico-finanziari, tuttavia, due elementi rendono ancora più complesso prevedere l’impatto che il coronavirus avrà in Africa. In primis, il fatto che la letalità interessi soprattutto le fasce più anziane, mentre è molto meno rilevante per giovani e bambini: per un continente in cui l’età mediana della popolazione è inferiore a 20 anni, l’impatto dell’epidemia potrebbe rivelarsi più contenuto rispetto ad altre aree.

Resta inteso che le pressioni su sistemi sanitari fragili, caratterizzati da un basso rapporto di medici per popolazione – 1 medico ogni 5.000 abitanti in media – e da una spesa sanitaria media pari al 5% del Pil, potrebbero comunque risultare difficilmente sostenibili. In secondo luogo, una certa resilienza legata alla diffusione e all’incidenza di malattie endemiche come malaria, dengue, febbre lassa, e di epidemie particolarmente gravi seppur territorialmente circoscritte come ebola, che tra 2013 e 2014 ha investito l’Africa occidentale (Liberia, Sierra Leone, Guinea) e, più recentemente, i territori nord-orientali della Repubblica Democratica del Congo, con tassi di letalità intorno al 50%. L’esperienza di gestione di epidemie più gravi e impattanti rappresenta per gli stati africani un patrimonio importante, in termini di expertise nel controllo e nella risposta all’emergenza, facendo leva sulla mobilitazione comunitaria e sull’adattamento delle misure di contenimento alle condizioni locali e alle specificità culturali.

 

 

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