22 Apr 2020

“Masala lockdown”: l’India di Modi contro il Covid-19

Focus

“Solo se c’è vita ci sarà sostentamento”, aveva detto Narendra Modi nel suo messaggio alla nazione all’inizio del “Janata curfew”, il coprifuoco del popolo, la totale chiusura dell’India. La salute di un miliardo e più di 300 milioni d’indiani, il secondo paese più popoloso del mondo dopo la Cina, contava più di ogni altra cosa. Iniziava il masala lockdown.

Gli indiani faticavano a comprendere in pieno la gravità della situazione. Per imporre il coprifuoco spesso la polizia era costretta a usare le maniere forti. Fino a quando il Board of Control of Cricket, la Premier League vinta l’anno scorso dai Mumbai Indians, ha sospeso il campionato “a tempo indeterminato”. Il torneo fra le otto super-squadre di cricket doveva iniziare all’inizio di aprile.

Tre settimane dopo il primo messaggio televisivo, di nuovo in tv ma questa volta indossando la mascherina per dare l’esempio, il primo ministro faceva una decisiva correzione. “Ora – aveva detto – il nostro mantra è: le vite e il sostentamento contano allo stesso modo”.

Pur annunciando la prosecuzione del lockdown di un paese grande e popolato quanto un continente, Modi si è trovato di fronte allo stesso dilemma di ogni capo di governo del mondo: equilibrare la sicurezza sanitaria del suo popolo con la necessità sempre più impellente di rimettere in moto l’economia. A gennaio la crescita indiana prevista per il 2020 era del 5%, ridotta poi al 4,5 dai conti del Fondo Monetario: cioè a 1,3 punti da quella inutile “crescita hindu” individuata molti anni fa da Amartya Sen, che aveva lasciato l’India in una condizione di sussistenza per tutto il primo mezzo secolo d’indipendenza.

Il 4,5% non era considerata una grande performance, date le necessità del paese e le ambizioni di Modi che, inaugurando a fine maggio il suo secondo mandato, aveva promesso quasi di raddoppiare le dimensioni dell’economia indiana: da meno di 3mila miliardi di dollari a 5mila in cinque anni. Ma secondo le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale, il covid-19 e la chiusura delle attività che ha provocato, ridurranno la crescita di quest’anno all’1,9%. Per gli analisti di Barclays potrebbe essere pari allo zero.

Essere probabilmente l’unico paese al mondo insieme alla Cina ad avere comunque un segno più, non è di grande conforto per il governo indiano. Per non essere vanificata dalla demografia e dagli obblighi di sviluppo, il Pil non dovrebbe mai scendere al di sotto del 7%. E dovrebbe crescere dell’11% per raggiungere l’obiettivo di raddoppiare il valore dell’economia indiana. La stima di perdita per l’intero sistema mondiale, prevista dal Fondo Monetario, è di 9mila miliardi di dollari: tre volte il Pil indiano.

Forse il più grande successo dell’India in questo ultimo ventennio è stato il suo contributo alla riduzione della povertà globale. All’inizio di questo secolo i poveri erano il 42% della popolazione indiana, ora sono un quinto. Nella catena sociale questo successo ha prodotto un fenomenale spostamento verso l’alto delle classi: sono aumentati i salariati e i consumatori sia per numero che per qualità di spesa, la middle class è cresciuta e si è consolidata. È questo successo storico che il virus e le sue conseguenze economiche ora mettono in discussione.

In crisi potrebbe entrare anche “Make in India”, il piano di attrazione delle produzioni industriali straniere, fiore all’occhiello dei primi cinque anni di governo Modi. L’anno scorso gli investimenti stranieri avevano raggiunto i 62 miliardi di dollari. “Data la predilezione per il protezionismo della maggioranza dei leder globali, le multinazionali saranno sotto pressione per ricollocare le loro basi più vicino a casa”, scrive sul quotidiano economico Mint il suo direttore Anil Padmanabhan. “Il messaggio per l’India è ovvio: deve concentrarsi su questo, e rapidamente”.

Almeno per ora, la diffusione del virus è sorprendentemente bassa. Una ragione in più perché si riapra l’economia: le pressioni si fanno sempre più forti. Un prolungamento dopo l’altro, anche in India il lockdown è stato esteso fino all’inizio di maggio. CII, la Confederation of Indian Industries, nel suo ultimo rapporto guarda all’immediato futuro: “La nostra raccomandazione è che le banche garantiscano a tutte le imprese un capitale disponibile equivalente a tre mesi di salario, con un tasso d’interesse fra il 4 e il 5%”, e con garanzie governative. La Reserve Bank of India, la banca centrale, già aveva tagliato il “repo rate” (il tasso col quale presta denaro al sistema creditizio nazionale) di 75 punti base, cioè al 4,4%. Qualche giorno fa lo ha ridotto a 25, il 3,75%.

Quando è iniziata la crisi del Covid-19, il sistema bancario indiano era in pesante sofferenza, colpito da una serie di scandali e in attesa di una grande riforma che il governo di Narendra Modi ha tardato a realizzare. Nel periodo aprile-dicembre 2018 le banche facevano crediti per 113mila miliardi di rupie (1,45mila miliardi di euro). Prima dell’inizio della pandemia prestavano denaro per 3,5mila miliardi (44 miliardi di euro). “È un calo straordinario e irripetibile: nessuna economia può crescere in assenza di credito”, aveva detto a gennaio al Sole 24 Ore Rajiv Kumar, il vicepresidente di NITI Aayog (il presidente è Modi), l’agenzia governativa che ha sostituito la Commissione del Piano.

È evidente quanto sia un’impresa titanica anche in India, affrontare l’imminente crisi economica. Il governo ha stanziato un bazooka da 7mila miliardi di rupie, più di 84 miliardi di euro. Ma per molti economisti sarebbero stati necessari almeno 9/10mila miliardi, fra il 4 e il 5% del Pil. Il 3 maggio, quando il lockdown nazionale sarà attenuato, riprenderanno i settori dell’agricoltura, della logistica, delle infrastrutture, dell’e-commerce e delle industrie fuori dai limiti metropolitani. Per la ripresa è fondamentale l’agricoltura e non solo per i rifornimenti alimentari: il settore garantisce il 15% del Pil indiano e occupa quasi la metà della forza lavoro del paese.

 

 

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