22 Apr 2020

Le potenze “tradizionali” in Africa, tra passato e presente

“Quello che faremo – o non riusciremo a fare – in Africa entro il prossimo anno o i prossimi due avrà grandi conseguenze per gli anni a venire […] Riteniamo che l’Africa sia forse il più grande campo di manovra della competizione su scala mondiale fra il blocco comunista e il mondo non-comunista”. Così, nel […]

“Quello che faremo – o non riusciremo a fare – in Africa entro il prossimo anno o i prossimi due avrà grandi conseguenze per gli anni a venire […] Riteniamo che l’Africa sia forse il più grande campo di manovra della competizione su scala mondiale fra il blocco comunista e il mondo non-comunista”. Così, nel marzo del 1962, all’inizio del decennio che avrebbe portato la maggioranza degli stati africani ad ottenere l’indipendenza, John Kennedy chiariva, a chi ancora dubitava dell’importanza del continente, il posto che l’Africa avrebbe occupato nelle relazioni internazionali.

L’Africa dei primi anni Sessanta fu attraversata dalle indipendenze e dalla ridefinizione dei rapporti con le ex potenze coloniali, e, contemporaneamente, dall’estendersi della competizione bipolare. Come il colonialismo, la Guerra fredda non fu solo competizione militare o politica ma una partita giocata anche, e soprattutto, sul piano economico e culturale. A differenza di quanto era accaduto tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, quando gli Stati europei, all’apice dell’imperialismo, avevano esteso il proprio controllo militare e poi di governo su quasi tutto il continente africano, con l’Europa al centro del sistema, ora l’Africa si apriva e si misurava con altri interlocutori: anzitutto i suoi stessi leader politici, chiamati alla prova dei fatti, e poi le nuove grandi potenze – Stati Uniti e Unione Sovietica – e, in prospettiva, altri attori internazionali, come la Cina, Cuba, l’India.

Per tre decenni, proprio a partire dagli anni Sessanta, i protagonisti della Guerra fredda, capaci di dispiegare una molteplicità di strumenti di azione, cercarono di far prevalere lo status quo delle alleanze contrapposte, azzerando di fatto le possibilità di un reale smarcamento dai due blocchi. Il tanto vagheggiato non-allineamento rimase per lo più una formula retorica, stretta fra necessità di aiuti economici e di protezione militare.

Fra tutte le potenze impegnate a mantenere relazioni con il continente, è la Francia ad agire con strumenti ad hoc: franco CFA, accordi militari, trattati di difesa, francofonia. Per Parigi è questione di status internazionale, oltre che di necessario controllo su risorse strategiche. Le relazioni con l’Africa servono alla Francia quanto la Francia serve ai presidenti africani: è su questa mutua dipendenza che si costruisce la Françafrique. Per il Regno Unito, assolta la questione della devoluzione dei poteri, contano alcuni stati più di altri. Come in epoca coloniale, Londra non pensa in modo sistemico, ma cura relazioni bilaterali alla luce di interessi specifici, soprattutto di natura economico-commerciale: Sudafrica; Nigeria; Kenya.

Washington e Mosca, che non hanno dovuto misurarsi con la decolonizzazione, si considerano, e in parte vengono considerati, nuovi interlocutori. Forti di enormi arsenali militari, che ne sostanziano il rango di superpotenze, giocano la carta dei rispettivi modelli economici e della cooperazione allo sviluppo, cui legano però il tema della scelta di campo: o con me o contro di me. Non sorprende, perciò, che le crisi africane diventino, già a partire dagli anni Sessanta, crisi internazionali: Congo ’60; Angola ’75, Etiopia-Somalia ’77. E la politica si intreccia all’economia in modo sempre più interconnesso: l’Africa non è affatto isolata, come ancora in quegli anni la si rappresenta; prova ne è che la grande disponibilità monetaria seguita alla crisi petrolifera, a sua volta innescata dalla guerra dello Yom Kippur in Medio Oriente, alimenta il progressivo indebitamento che strozzerà le economie di molti stati africani nel decennio successivo.

Nella seconda metà degli anni Ottanta, con Mosca impegnata soprattutto su altri temi e scacchieri, le risposte degli attori occidentali, ora affiancati dalle grandi organizzazioni internazionali, quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, passano attraverso progetti di aggiustamento strutturale, che presuppongono l’adattamento a un modello politico-economico univoco, con buona pace dei tentativi di affrancamento post-coloniale.

È su questo sfondo, nel pieno del ripiegamento e, più tardi, del collasso sovietico, che si fanno strada nuove parole d’ordine nelle relazioni fra gli Stati africani e le potenze occidentali. Il discorso rivolto da François Mitterrand ai capi di Stato africani, riuniti a La Baule nel giugno 1990, ne diventerà il simbolo: democrazia e buon governo, chiarisce il presidente, saranno le sole chiavi di accesso agli aiuti francesi e, più in generale, occidentali.

In realtà, di lì a poco, nuove crisi – Somalia, Sierra Leone e poi Rwanda – ridimensionano la portata del cambiamento, mostrando come, dietro la nuova impalcatura retorica, l’atteggiamento delle potenze tradizionali e degli Stati Uniti non sia in realtà cambiato rispetto agli anni della Guerra fredda e come l’afflato etico si possa presto accantonare pur di salvaguardare gli interessi di sempre, economici e strategici.

Negli anni Novanta, con la fine dell’Unione Sovietica e la pervasività dei dettami delle politiche neo-liberiste avviate e consolidate nel decennio precedente con Ronald Reagan e Margaret Thatcher, questi interessi sembrano sufficientemente al sicuro. Tuttavia, è proprio con l’inizio dell’ultimo decennio del Novecento che si gettano le basi per una trasformazione, questa sì, destinata a produrre cambiamenti significativi. Le riforme economiche avviate dalla Cina e dall’India avranno ricadute in Africa, dove i governi dei paesi ricchi di risorse (non tutti quindi), sempre più stretti dalla condizionalità dell’aiuto occidentale, saranno pronti a rispondere ai nuovi e crescenti bisogni asiatici in campo energetico e di risorse naturali in cambio di un nuovo tipo di cooperazione. Forse, come mai prima, si coglie ora la portata dell’inserimento del continente africano nelle dinamiche globali: Europa e Stati Uniti perdono la primazia in Africa proprio nel momento in cui sul piano ideologico il continente, da sempre caratterizzato da un profondo sincretismo religioso, è attraversato da fondamentalismi crescenti, fino a diventare, nella sua parte saheliana soprattutto, una nuova frontiera di espansione dell’Islam radicale.

Dopo il 2001, quando gli Stati Uniti estendono a tutto il globo il perimetro della loro sicurezza nella “global war on terror”, l’Africa, dopo un decennio di relativo disinteresse delle cancellerie occidentali, torna al centro dell’attenzione generale. Di nuovo, il tema del controllo – sulle risorse, come e più di ieri; sull’espansione dei fondamentalismi, in forme nuove; sui flussi di migranti e profughi, in proporzioni mai così ampie – si ripropone e i meccanismi di reazione dei governi delle grandi e medie potenze non sembrano variare rispetto al passato. Si reagisce attraverso il ricorso alla securitizzazione e alla militarizzazione; si cercano partner africani affidabili cui demandare ciò che non può essere fatto direttamente e si lavora sul piano della elaborazione retorica a costruire nuovi partenariati, rincorrendo quanto di più e meglio sembrano fare i competitori asiatici, la Cina in particolare.

La credibilità di questi tentativi e l’efficacia di questi strumenti, tuttavia, appaiono deboli e sembrano testimoniare l’incapacità non solo di dare risposte a questioni sempre più complesse, ma anche di individuare le priorità che, come mostra la pandemia in corso, non vanno cercate attraverso il filtro dei singoli interessi nazionali, come un tempo, ma esigono ben altro respiro e nuove intelligenze.

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