12 Giu 2019

Hong Kong: origine e sviluppo della protesta

Tensione USA-Cina

Il 27 novembre il presidente statunitense Donald Trump ha firmato la “Legge sui diritti umani e la democrazia a Hong Kong”: un documento che sancisce una presa di posizione diretta su Hong Kong da parte degli Stati Uniti. Pechino, attraverso uno dei portavoce del Ministero degli Esteri, ha affermato che “gli Stati Uniti devono immediatamente smettere di interferire a Hong Kong e negli affari interni della Cina. Se gli Stati Uniti continueranno a perseguire questa strada, la Cina sarà costretta a intraprendere forti contromisure per difendere la sua sovranità nazionale”. La competizione Cina-Stati Uniti è quindi ora definitivamente attraccata sulle strade di Hong Kong. E le immagini delle strade di Hong Kong che i media hanno trasmesso dall’inizio dell’estate ricordano quelle di cinque anni fa: un fiume di manifestanti e ombrelli colorati che rimandano a una realtà di aperta opposizione politica a cui raramente si è assistito nella Cina contemporanea. Le proteste iniziate il 9 giugno contro un emendamento alla legge sulle estradizioni, ufficialmente ritirata il 24 ottobre, si sono trasformate in un’opposizione all’ingerenza sempre più accentuata di Pechino nell’autonomia di Hong Kong. Le proteste vanno avanti da ormai 250 giorni e contano ora perdite in termine di vite umane.

Nel corso di questi mesi le forze di polizia hongkongesi hanno utilizzato armi da fuoco e idranti contro i manifestanti – ferendo gravemente uno dei giovanissimi partecipanti alle proteste – nonostante il Capo Esecutivo della città, Carrie Lam, avesse garantito che misure esclusivamente legali sarebbero state attuate per reagire alle proteste. Gli scontri con la polizia avrebbero causato decine di feriti e recentemente si è assistito a un’esacerbazione delle tattiche di contenimento che hanno compreso anche l’utilizzo di armi da fuoco contro la folla. Carrie Lam ha inoltre definito i manifestanti come “nemici del popolo”, prendendo le distanze dalla posizione più moderata che aveva mantenuto in precedenza. Il tentato omicidio del legislatore pro-Pechino Junius Ho nonché l’arresto di sette legislatori marcatamente a supporto di un futuro democratico per la città, inoltre, non rappresentano soltanto un inasprimento delle tensioni in termini di violenza, ma sottolineano anche come le elezioni distrettuali programmate per il 24 novembre fossero fonte di una marcata instabilità. Elezioni che si sono dimostrate una vittoria per l’ala democratica di Hong Kong e che ha sottolineato come non siano solo i giovani manifestanti per le strade a sostenere la democrazia, ma anche quella fascia della popolazione che era rimasta silente e che Carrie Lam aveva sperato si schierasse in favore dell’establishment.

Pechino aveva definito la condotta dei manifestanti vicina al terrorismo: un termine, quest’ultimo, che riporta a un’altra regione irrequieta della Cina, lo Xinjiang, evocato anche nelle “proteste anti-sorveglianza” in cui i manifestanti hanno preso di mira diversi “lampioni intelligenti” dotati di sensori per il riconoscimento facciale, telecamere e reti dati. Il 4 ottobre il governo di Hong Kong ha invocato lo stato di emergenza, introducendo, il giorno seguente, la cosiddetta “legge anti-maschera” che vieta ai manifestanti di coprirsi il volto del tutto o in parte durante le proteste, anche in occasione dei raduni autorizzati dal governo. Anche l’uso della vernice viene vietato da questa legge e chi la viola rischia fino a un anno di reclusione o una multa di HK $25.000 (circa 3000 euro). Nel caso un manifestante disobbedisca a un ordine diretto delle forze di polizia per la rimozione della maschera, rischia fino a sei mesi di carcere e una multa di HK $10.000 (circa 1100 euro). Un’ulteriore misura che riprende quelle dello Xinjiang, dove già nel 2014 era stata adottata una legge simile.

È un momento delicato in cui i risvolti dell’accordo del 1997 tra Regno Unito e Cina, il cosiddetto handover di cui il 1° luglio è ricorso il ventiduesimo anniversario e che ha sancito il passaggio di Hong Kong da protettorato inglese a regione amministrativa speciale nella sfera di influenza di Pechino, si fanno sempre più stringenti. Cosa ha spinto i manifestanti a scendere in strada e quali sono le loro richieste? A cosa ambisce la Cina? E quali prospettive per Hong Kong?

 

 

Perché si protesta a Hong Kong?

Le proteste contro l’emendamento (poi ritirato) alla legge sull’estradizione non rappresentano che un tassello di un più profondo attrito tra Hong Kong e Pechino in vista dell’avvicinarsi della data in cui l’autonomia di Hong Kong dalla Cina, negoziata dal Regno Unito nel 1997, volgerà al termine. Nel 2047 Hong Kong cesserà infatti di avere standard politici, economici e istituzionali diversi e più autonomi rispetto al resto della Cina. E Pechino ha già dimostrato l’intenzione di erodere, anche se in modo quasi impercettibile, il grado di autonomia di Hong Kong.

Nel 2014 Hong Kong era già stata scossa da proteste durate quasi tre mesi. In quel caso, le manifestazioni erano scaturite dalla decisione del Comitato permanente del Congresso nazionale del popolo di Pechino di riformare il sistema elettorale di Hong Kong. Tale riforma, proposta e non adottata, è stata infatti percepita come una misura estremamente restrittiva dell’autonomia della regione, poiché ha comportato l’equivalente di una “preselezione” dei candidati alla leadership di Hong Kong da parte del Partito Comunista Cinese (PCC). Non a caso il Capo Esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, è stata accusata più volte di aver intensificato le relazioni con Pechino da quando è in carica (2017), nonostante avesse più volte ribadito che la proposta di legge sull’estradizione dei mesi scorsi fosse stata lanciata su spinta della leadership della città e non da attori esterni.

Le contestazioni non sono quindi una novità nel panorama politico del paese. Al contrario, dal momento che i cittadini di Hong Kong non sono liberi di esprimere la propria preferenza elettorale, ma hanno il diritto di manifestare, le proteste sono uno strumento spesso adottato dalla società civile per far sentire la propria voce. In un momento in cui le disuguaglianze sociali sono particolarmente sofferte dai più giovani, i cittadini di Hong Kong percepiscono la classe politica e quella degli imprenditori come sempre meno rappresentative dei propri interessi e vicine a Pechino.

 

Cos’ha portato alla luce la legge sull’estradizione e perché è stata abolita?

A Hong Kong sono oggi in vigore leggi sull’estradizione basate su accordi bilaterali con venti paesi (tra cui Canada e Stati Uniti), tra cui non rientrano però né la Cina continentale, né Macao, né Taiwan. L’emendamento alla legge che è stato all’origine delle proteste avrebbe cambiato le cose rendendo l’estradizione possibile per determinati reati, come l’omicidio o la violenza sessuale, pur senza che fosse estesa ad altri tipi di crimini, in particolare quelli legati alla sfera commerciale o economica, come l’evasione fiscale. La proposta di legge aveva infatti avuto origine dalla richiesta delle autorità di Taipei di trasferire a Taiwan un cittadino di Hong Kong, accusato dell’omicidio della fidanzata mentre si trovava sull’isola. Il timore diffuso era che il provvedimento avrebbe potuto colpire anche i cittadini stranieri di passaggio a Hong Kong.

All’origine delle proteste vi era dunque soprattutto la preoccupazione da parte dei cittadini hongkongesi circa il fatto che le richieste di estradizione verso la Cina continentale dessero adito a violazioni dei diritti umani e che avrebbero potuto essere usate come pretesto per raggiungere i dissidenti politici fuggiti a Hong Kong dal territorio cinese. Nonostante il piano di estradizione non si sarebbe applicato ai reati politici, un ulteriore rischio era che la nuova normativa avrebbe finito per legalizzare, in un certo modo, i rapimenti che si erano susseguiti a Hong Kong negli ultimi anni e di cui Pechino era stata in molte occasioni ritenuto il mandante.

L’abolizione della legge sull’estradizione era una delle principali richieste dei manifestanti, ma ce ne sono altre: le dimissioni di Carrie Lam; l’avvio di un’inchiesta sull’uso della violenza da parte della polizia; il rilascio dei manifestanti arrestati e la garanzia che maggiori libertà democratiche avrebbero continuato ad essere garantite alla città.

Il Comunicato ufficiale rilasciato il 31 ottobre in seguito al Quarto Plenum del Partito Comunista – un vertice che ha sempre avuto una certa importanza – ha posto l’enfasi sull’intenzione di “sostenere e migliorare” il principio di “un paese, due sistemi”.  Oltre che Hong Kong e Macao, inoltre, questo principio è stato nominato più volte anche in relazione a Taiwan e all’obiettivo di riunificare pacificamente la madrepatria: una narrativa che mette sempre più al centro Pechino e la leadership di Xi.

 

Qual è la prospettiva cinese?

Il tema della contestazione politica è sempre più centrale nelle preoccupazioni delle autorità. In un momento particolarmente delicato per Pechino, che oltre alla guerra commerciale con gli Stati Uniti si trova a dover far fronte a una serie di sfide interne per il mantenimento della stabilità e dell’integrità dello stato, una nuova ondata di proteste provenienti da Hong Kong non fa che rafforzare la repressione di Pechino contro qualsiasi tipo di contestazione. Il 2019 è l’anno degli “anniversari difficili” per il PCC, a partire da quello dei 30 anni dalle proteste di piazza Tienanmen, che ha provocato una censura diffusa sulle piattaforme di comunicazione cinesi.

Per il momento, le autorità di Hong Kong non permettono al PCC di intromettersi nelle questioni che riguardano la sua sicurezza interna. Da metà agosto, tuttavia, Pechino ha radunato contingenti di truppe armate a Shenzhen, sul confine continentale di Hong Kong. Al momento, Pechino potrebbe intervenire direttamente nella città solo su richiesta delle autorità cittadine, o se il Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo – l’organo a capo della legislatura cinese – dichiarasse lo stato di guerra o di emergenza. Ma per ora è stata solo la leadership della città a dichiarare lo stato di emergenza.

Il momento per Hong Kong di cominciare a negoziare con Pechino per mantenere anche solo una minima parte del grado di autonomia di cui ora gode si sta lentamente avvicinando. Per la Cina, stabilità e sicurezza sono legate a doppio filo con i propri obiettivi di sviluppo economico, e proprio per questo Pechino le ritiene fondamentali: alla luce delle proteste di questi mesi, c’è il rischio concreto che in nome della stabilità la leadership cinese accentui il livello di assertività nei confronti della società civile di Hong Kong, incrementando nel corso dei prossimi anni le ingerenze in un territorio considerato come “instabile”.

Inoltre, gli interventi internazionali a favore di Hong Kong, in primis la mozione dell’Unione Europea il giorno seguente la nomina di Ursula von der Leyen a presidente della Commissione Europea affinché Hong Kong abbandonasse la proposta di legge sull’estradizione e iniziasse riforme democratiche, nonché i confusi interventi di Donald Trump, hanno dato vita a un’ulteriore fase critica per Pechino, che ha iniziato a riferirsi alle proteste come “rivoluzione colorata”, espressione che sottintende l’ingerenza di paesi terzi nella fomentazione della rivolta.

 

Tra Cina e democrazia: quali scenari per Hong Kong?

La Cina continentale considera particolarmente minacciose le proteste che stanno scuotendo Hong Kong, dato soprattutto il ruolo della città a livello internazionale. Pechino teme infatti che tale apertura al resto del mondo possa favorire le spinte centrifughe che attraversano Hong Kong sin dalla sua “cessione” da parte del Regno Unito. La Cina si trova oggi di fronte a un dilemma: qualsiasi compromesso troppo poco stringente potrebbe creare un precedente che rischierebbe di estendersi alle relazioni tra Pechino e altre regioni contese come Macao, Taiwan, Tibet, Xinjiang e Mongolia interna. D’altra parte, altrettanto rischioso sarebbe agli occhi di Pechino far finta che nulla sia successo, poiché proprio nelle suddette regioni le proteste di Hong Kong potrebbero trovare facili emuli. Inoltre, Pechino sta realizzando la Greater Bay Area, una enorme zona economica e finanziaria che comprenderebbe anche Hong Kong e sarebbe in grado di rivaleggiare con le baie di San Francisco e Tokyo. A questo scopo, è necessario che Hong Kong sia ulteriormente integrata con la terraferma: non è un caso, infatti, che collegamenti terrestri come quello con Zhuhai nel Guangdong siano già stati realizzati. A causa delle continue proteste, tuttavia, Pechino sta ora vagliando la possibilità di riformare i suoi piani operativi per la Greater Bay Area facendo sì che sia Shenzhen a svolgere il ruolo di centro finanziario e commerciale, anche per quel che riguarda le transazioni con l’estero. In particolare, il Consiglio di Stato di Pechino ha già approvato una direttiva che consolida il ruolo di Shenzhen come polo scientifico e tecnologico della Greater Bay Area, comprensivo di una posizione di primo piano nell’internazionalizzazione del renminbi.

Hong Kong rimane legata a doppio filo con Pechino che, nonostante l’interconnessione globale della città, ne è la principale destinazione dell’export, intercettando circa la metà del suo commercio totale per il 2018. I piani di Pechino, però, sembrano rivolti a un unico scopo: una sempre maggiore integrazione di Hong Kong nella Cina continentale. Al di là della legge sull’estradizione, gran parte della tensione che in queste settimane attraversa Hong Kong nasce infatti proprio dalle incognite che gravano sul futuro della sua fragile democrazia che, seppur imperfetta, deve oggi confrontarsi con un destino incerto: cosa comporterà infatti il completamento della transizione di Hong Kong nella Cina continentale non è ancora stato chiarito. Ed è proprio questa incertezza che continuerà a fomentare le proteste.

 

 

Quale relazione tra Cina, Hong Kong e Stati Uniti?

Dopo gli interventi contrastanti degli Stati Uniti riguardo le proteste a Hong Kong, il paese ha ora preso una posizione chiaramente a sostegno dei manifestanti. Il 27 novembre il Senato americano ha infatti approvato all’unanimità il bipartisanPROTECT Act” proposto dalla senatrice repubblicana Marsha Blackburn che proibisce la vendita di equipaggiamenti per il controllo della folla alla Cina. Gli ombrelli colorati non a caso sono stati sostituiti con una serie di bandiere americane, intendendo Washington come possibile mediatore. Il vice presidente statunitense Mike Pence ha recentemente dichiarato che la reazione di Pechino alle proteste si intreccia con le difficili relazioni commerciali tra Stati Uniti e Cina che, da poco, hanno riaperto un dialogo per la risoluzione della guerra commerciale. Forti contraddizioni emergono anche dalla narrativa statunitense e da quella cinese riguardo a Hong Kong. La prima sottolinea infatti la natura pacifica delle proteste, mentre la seconda ne sottolinea le violenze, definendole “terrorismo”. Questa netta distinzione è stata fonte di un recente attacco da parte cinese a Nancy Pelosi, Presidente della Camera dei Rappresentati, per un tweet in supporto alla “Legge sui diritti umani e la democrazia a Hong Kong del 2019” volta a “valutare se gli sviluppi politici a Hong Kong giustifichino il cambiamento del trattamento di Hong Kong ai sensi della legge statunitense”. Il 24 ottobre Hua Chunying, portavoce del Ministero degli esteri cinese, ha denunciato la presidente Pelosi, indicando il “pregiudizio” tra le ragioni dell’intervento americano a favore di Hong Kong. Hua ha inoltre reiterato l’appartenenza di Hong Kong alla Cina, dimostrando come posizioni che non lasciano spazio al dialogo vadano a ledere ulteriormente le relazioni tra Stati Uniti e Cina, sempre più vitali per l’intero sistema internazionale alla luce della dilagante guerra commerciale.

 

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