18 Nov 2019

Hong Kong calling

Daily Focus
Weekend di violenze a Hong Kong dove da settimane i manifestanti, maschere in viso, sfidano l’esecutivo: la contestazione contro la legge sull’estradizione, poi ritirata, si è trasformata in qualcosa di diverso e preoccupa Pechino, sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale da cinque mesi.
 
Il fine settimana che si è appena concluso segna uno dei momenti più drammatici nell’escalation di violenze a Hong Kong. La polizia ha cinto d’assedio l’università del Politecnico occupata dai manifestanti. Fonti ospedaliere parlano di 38 feriti nelle ultime 36 ore. Centinaia gli arresti. Sui ponti che collegano il campus alla città si è assistito a scene di guerriglia con i dimostranti che – dotati di armi improvvisate, come archi e frecce – hanno dato alle fiamme vere e proprie barricate. Questa mattina, dopo due giorni di scontri, l’Alta Corte di Hong Kong ha giudicato incostituzionale la controversa legge introdotta a inizio ottobre per vietare l’uso di maschere nelle manifestazioni pubbliche, pensata per rendere più facile l’identificazione dei contestatori.
 

Perché si manifesta a Hong Kong?

 
Cominciate il 9 giugno scorso, le manifestazioni riguardavano inizialmente l’emendamento a una legge sull’estradizione che, se approvata dal Parlamento locale, avrebbe consentito di processare in Cina gli imputati di alcuni crimini gravi, come lo stupro e l’omicidio. Il timore dei manifestanti era che la legge potesse fornire a Pechino un escamotage per colpire i dissidenti politici rifugiati a Hong Kong. Quando la tensione ha cominciato a salire, l’emendamento è stato ritirato, ma non così la piazza. Too little too late, per dirla con gli ex colonizzatori britannici. La legge sull’estradizione rappresenta infatti l’ultimo focolaio di un attrito che, con cadenza regolare, riaffiora tra Hong Kong e Pechino. A covare sotto la cenere c’è l’avvicinarsi del 2047, anno in cui l’autonomia della città-stato dalla Cina, volgerà al termine. Ma anche tanto altro. Le disuguaglianze sociali, gli stipendi sempre più bassi e un vero e proprio blocco dell’ascensore sociale – che penalizza soprattutto i giovani, costretti ad emigrare verso il Canada o a Taiwan – hanno riacceso le proteste.
 
 

Chi è Carrie Lam e chi paga la crisi?

 
Il bersaglio degli slogan e del malcontento dei giovani manifestanti ha un nome e un cognome: Carrie Lam, primo Chief executive donna di Hong Kong. È stata lei a ideare e proporre l’emendamento sull’estradizione che ha dato fuoco alle polveri. Accusata di eccessiva subalternità a Pechino, ha rischiato di diventare il capro espiatorio della crisi. Ma alle voci insistenti che la davano per dimissionaria a metà ottobre, è seguito invece un endorsement del Politburo del Partito Comunista cinese (Pcc) e dello stesso presidente Xi Jinping. Agli occhi dei contestatori, Lam incarna il sentimento di frustrazione causato dalla sempre maggiore interferenza cinese negli affari della città. Non a caso nel 2014, la rivolta degli ombrelli, che riversò per le strade migliaia di manifestanti con gli ombrelli colorati, aveva come prima rivendicazione l’elezione democratica delle autorità cittadine. 
 
Non sono da sottovalutare, in questo scenario, le ricadute economiche delle proteste: per la prima volta in dieci anni l’economia dell’ex colonia britannica è in recessione. I turisti cancellano le prenotazioni, i commerci sono in stallo e i capitali vengono spostati all’estero. Tutto ciò si aggiunge alla pressione causata dal rallentamento dell’economia cinese e dalla prolungata guerra commerciale tra Pechino e Washington.
 

Pechino sta a guardare?

 
A dispetto della propaganda interna, che mostra contingenti militari ammassati alla frontiera, per ora non sembra che il governo cinese abbia intenzione di ripetere ad Hong Kong una repressione in stile Tiananmen. A 30 anni esatti dagli eventi del giugno 1989, Pechino non intende guastare l’immagine di ‘Global peaceful power’ che si è faticosamente costruita negli ultimi anni. Certo, la baia di Hong Kong riveste un’importanza strategica agli occhi dei cinesi: è qui che Pechino sta realizzando la Greater Bay Area, un enorme distretto tecnologico in grado di competere con la Silicon Valley di San Francisco. E a questo scopo, è necessario che Hong Kong sia ulteriormente integrata con la terraferma. 
 
 
 
Ma le preoccupazioni di Pechino non si esauriscono qui: una repressione violenta delle proteste annienterebbe la formula “Un paese due sistemi” – usata per definire i rapporti di Hong Kong con la madrepatria. L’effetto domino nei rapporti con le altre regioni ‘calde’ come Macao, Taiwan, Tibet, Xinjiang e Mongolia interna sarebbe immediato. D’altra parte è lo stesso governo cinese a parlare di “terrorismo” riguardo ai fatti in corso a Hong Kong. Un riferimento che riporta ad un’altro confronto tesissimo, quello con gli Uiguri, al centro degli ‘Xinjiang Papers’ pubblicati di recente dal NYTimes. Il rischio è di mettere in crisi l’idea cinese di “espansione pacifica” e di “collaborazioni win-win” tra il continente e le aree confinanti, sia nel Pacifico sia nell’Asia Centrale.
 
Non da ultimo, Pechino è seriamente preoccupata che le proteste possano fornire un pretesto alle potenze internazionali che vogliono indebolire la Cina a cominciare dagli Stati Uniti. La Commissione per i rapporti economici tra i due paesi, ha già chiesto che gli Stati Uniti sospendano lo status economico di Hong Kong, qualora Pechino dovesse dispiegare il suo esercito in città. E l’Unione Europea ha approvato una mozione “di condanna per le continue interferenze di Pechino nella politica di Hong Kong”. Fattori di cui la Cina di Xi Jinping, con le sue ambizioni di leadership globale, non può non tener conto.
 

IL COMMENTO

di Giulia Sciorati, Analista ISPI – Programma Cina
 
“Con l’inasprirsi delle proteste, anche le relazioni già tese tra Pechino e Washington si sono aggravate. L’intervento statunitense in favore dei manifestanti a Hong Kong rappresenta infatti una nuova fonte di tensioni.
 
Dopo i dazi e la competizione tecnologica, gli Stati Uniti vanno ora ad attaccare l’operato di Pechino nel tutelare i diritti e le libertà politiche e civili dei suoi cittadini.
 
E le accuse di Washington cadono proprio durante l’annus horribilis per il Partito Comunista che, a trent’anni dalle proteste di Piazza Tiananmen, tutto cerca tranne che acquisire nuovamente l’identità di quella che fu la Cina del 1989”.
 

 

 

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A cura della redazione di ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications) 

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