1 Giu 2020

Nell’Argentina a rischio default i nodi vengono al pettine

America Latina

L’Argentina balla ancora una volta sul filo della bancarotta, ma questa volta potrebbe anche riuscire a salvarsi. A 18 anni dall’ultimo default (l’ottavo in due secoli di storia) Buenos Aires si trova di nuovo nell’impossibilità di pagare i debiti contratti, ma nel mondo stravolto dalla pandemia di Covid19 il suo potere di negoziazione con i creditori è oggi più forte.

Non avendo pagato una rata in scadenza di 503 milioni di dollari delle sue obbligazioni internazionali il 22 maggio scorso il governo di Alberto Fernandez è diventato insolvente. “Default tecnico”, hanno subito detto, specificando che non sono fuori dai giochi perché c’è una negoziazione aperta con i grandi fondi che detengono buona parte dei 66 miliardi di dollari di debito in valuta straniera. Hanno proposto una moratoria di tre anni nel pagamento delle rate e una decurtazione di capitale e interessi. Pagare ciò che si può, in sostanza. “Un debito contratto – ha spiegato Fernandez – può essere sostenibile sempre che non danneggi profondamente la popolazione. Ma se pagando metti in miseria la tua gente, allora è insostenibile farlo”.

Questa settimana è decisiva, la zona Cesarini di offerte e controfferte si conclude venerdì prossimo. L’attuale congiuntura internazionale, questa volta, aiuta Buenos Aires e persino il Fondo Monetario Internazionale, che in passato aveva imposto politiche di austerità alla Casa Rosada, oggi ha toni più concilianti e opera per convincere i creditori a cedere e trovare un’intesa. Il FMI è a sua volta un creditore, avendo concesso al governo di Mauricio Macri il più grande prestito mai erogato nella sua storia; 44 miliardi di dollari che l’ex presidente conservatore ha usato per pagare gli interessi dei bond emessi durante la sua gestione. Il Fondo, in sostanza, non vuole un’Argentina di nuovo in bancarotta perché sa che in quella situazione sarebbe molto più complicato recuperare quanto prestato.

Sullo sfondo di questa complicata negoziazione c’è la pandemia che ha paralizzato di fatto il Paese. A differenza del vicino Brasile del negazionista Bolsonaro, oggi epicentro mondiale del virus, l’Argentina ha optato per un lockdown severo, chiudendo già a metà marzo praticamente tutto. Il governo ha sospeso gli eventi pubblici, cessato le lezioni in scuole e università, chiuso i servizi non essenziali, sigillato le frontiere e ha fatto tutto ciò assieme a un rigido controllo delle forze dell’ordine soprattutto nelle grandi città. Sorprendentemente c’è stata anche un’intesa bipartisan tra peronisti ed opposizione, qualcosa di inimmaginabile se si considerano i toni ruvidi della campagna elettorale di fine 2019. Con 16.000 casi e poco più di 500 decessi questa strategia sembra aver funzionato; il virus è stato circoscritto sostanzialmente nella grande Buenos Aires, dove vive il 40% della popolazione. Nelle provincie rurali del Nord e in Patagonia i casi sono pochissimi, tanto che adesso è lì che si sta riaprendo parzialmente l’economia. Nella capitale la situazione più critica è nelle villas miserias, le baraccopoli, con circa il 30% dei casi dell’intera città. La curva dei contagi a livello nazionale raddoppia ogni 15 giorni, una media più che accettabile e che fa pensare ad un’evoluzione lenta nelle prossime settimane, se si continueranno a rispettare le misure di quarantena nelle zone più esposte.

La situazione economica, già complicata prima della pandemia, è chiaramente peggiorata e le previsioni parlano di una flessione del 10% del Pil per la fine dell’anno, con un aumento della svalutazione della moneta locale e dell’inflazione, le due croci degli argentini. A Buenos Aires un terzo dei ristoranti e un quinto dei negozi potrebbero non riaprire più, la disoccupazione aumenta. L’unico settore che potrebbe non chiudere in rosso è quello delle esportazioni agricole, anche se qui pesa il rincaro dei prodotti importati. Per frenare la fuga di capitali il governo ha limitato le operazioni cambiarie; ad ogni argentino è permesso comprare solo 200 dollari al mese dietro presentazione di una dichiarazione giurata sull’origine dei fondi usati per l’acquisto degli stessi. La compagnia di bandiera Aerolineas Argentinas ha annunciato la sospensione di 8.000 impiegati, nel settore pubblico già si pensa al congelamento dei salari che finora venivano ritoccati per correre dietro alla corsa dell’inflazione, prevista anche quest’anno oltre il 50%.

Dopo due mesi di lockdown la pressione sociale si fa sentire; secondo i dati dell’Università cattolica argentina il 40% delle famiglie vivono sotto la soglia della povertà, mentre sei bambini su dieci non hanno accesso ad un’alimentazione sufficiente. In questo contesto è chiaro che il governo dovrà stampare più moneta per ampliare l’offerta dei piani di sussidi assistenziali, ma la domanda è fino a quando tutto questo sarà sostenibile. Non pagare il debito è condicio sine qua non per non finire in ginocchio, ma senza un accordo e una moratoria di almeno due anni Buenos Aires rischia di rimanere isolata dal mondo, senza finanziamenti esterni e senza risorse in cassa, con un debito complessivo intorno al 90% del Pil. Ripartire, del resto, è necessario, ma i buoni risultati ottenuti nella lotta contro il virus non possono essere vanificati proprio adesso che inizia la fase critica dell’inverno. Alberto Fernandez gode di buona popolarità e questo per ora gli serve anche per evitare conflitti interni con la sua vice, l’ex presidente Cristina Fernandez. Il futuro dell’Argentina ruota intorno a politica, debito e crisi sanitaria in un complicato intreccio in cui ogni fattore condiziona gli altri alla ricerca della difficile, ma non impossibile, quadratura del cerchio.

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