6 Ago 2020

Nucleare: Hiroshima, 75 anni dopo

Daily focus

Il 6 agosto 1945 la città giapponese di Hiroshima veniva distrutta dalla prima bomba atomica a cui sarebbe seguita, tre giorni dopo quella su Nagasaki. Oggi, 75 anni dopo, la corsa al nucleare non si è arrestata.

 

Sono passati 75 anni da quando, il 6 agosto 1945, gli Stati Uniti sganciarono un ordigno nucleare sulla città di Hiroshima, seguito tre giorni dopo dalla stessa operazione su quella di Nagasaki. Le due esplosioni, con le mostruose nuvole a forma di fungo passate alla storia, cancellarono le due città in un attimo, provocando oltre 300mila morti e condannando i sopravvissuti a sofferenze indicibili. Il doppio attacco decretò di fatto la fine della Seconda guerra mondiale con la resa incondizionata del Giappone, 6 giorni dopo. A lungo si è dibattuto del peso che quel crimine ebbe sugli equilibri bellici e la vittoria statunitense, ma oggi buona parte della storiografia concorda che a svolgere un ruolo nella decisione di sganciare i due ordigni fu il crescente antagonismo che si andava delineando tra le due potenze vincitrici della guerra, Stati Uniti e Unione Sovietica. A 75 anni di distanza dalla strage – malgrado l'emergenza sanitaria del Coronavirus, che minaccia soprattutto la generazione dei sopravvissuti al disastro, 'gli hibakusha', di età media superiore agli 83 anni – il premier nipponico Shinzo Abe ha commemorato l'anniversario all'interno del parco del memoriale della Pace a Hiroshima. Alla cerimonia c’erano i rappresentanti di 80 nazioni. Ma buoni propositi a parte, sono molti i paesi che ancora decidono di rinnovare i propri arsenali e mentre i trattati per il controllo della proliferazione falliscono o non vengono rinnovati il rischio è quello di una nuova corsa al nucleare.

 

 

Tnp: Un accordo difettoso?

Oggi i paesi che appartengono al cosiddetto ‘club del nucleare’ sono 9. Cinque (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Regno Unito) sono quelli che ammettono ufficialmente di possedere ordigni atomici; quattro (India, Pakistan, Corea del Nord e Israele) hanno condotto test nucleari. Insieme, questi paesi sono in possesso di circa 14.000 testate nucleari, il 90% delle quali è in mano a Stati Uniti e Russia. Il primo trattato per cercare di controllare la proliferazione di armi nucleari nel mondo, il Trattato di non proliferazione (Tnp) del 1970, soffrì di un ‘difetto di base’, poiché imponeva regole diverse agli stati aderenti: a chi già aveva l’arma nucleare era concesso di continuare a svilupparla, mentre a chi non la possedeva era vietato realizzarla. Il Tnp non è vincolante, e se oggi il numero di ordigni nucleari è minore rispetto agli anni della Guerra fredda, è un fatto che molti di quelli ritirati siano stati sostituiti da dispositivi più potenti e versatili.

 

 

Una memoria che si affievolisce?

Negli ultimi due anni, la rivalità tra Usa e Russia ha affossato i principali trattati di controllo. A febbraio 2021 scade il patto dei patti, il trattato sulle armi nucleari strategiche fra Russia e Stati Uniti (Start), ma i negoziati per il rinnovo sono a un punto morto. Washington vorrebbe un trattato a tre con la Cina. Ma Pechino obietta che il suo arsenale non è paragonabile a quello di Stati Uniti e Russia. E la politica della massima pressione di Donald Trump non ha prodotto i risultati sperati neanche con la Corea del Nord. Infine un altro accordo cruciale di non proliferazione, l'accordo sul nucleare iraniano del 2015 (Jcpoa) è in stallo, in seguito al ritiro unilaterale dell'amministrazione Trump nel 2018. Successivamente, nel 2019, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha rinnegato anche il Trattato sulle forze nucleari a portata intermedia del 1987 (Inf), lamentando “che la Russia non lo rispetta” e suggerendo che l'era degli accordi bilaterali sul controllo degli armamenti nucleari tra Russia e Stati Uniti potrebbe essere giunta al termine. Intanto, in Asia – come riporta il Sipri – si stanno muovendo anche Cina, India, Pakistan e Corea del Nord: il rischio è quello di una nuova corsa agli armamenti nucleari, Stati Uniti e Russia in testa, che insieme detengono ancora oltre il 90% delle armi nucleari globali. 

 

E l’Italia?

Secondo uno studio recente della Federation of American Scientists gli Stati Uniti hanno tra i 100 e i 150 ordigni nucleari stoccati in Europa e l'Italia è il paese europeo col più alto numero di bombe in ben due basi nucleari: quella Usa di Aviano, in provincia di Pordenone, e quella dell’aereonautica militare a Ghedi, nel Bresciano. L'accordo bilaterale non è noto nei dettagli ma secondo quanto riferisce L'Italia aderisce Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) del 1970 che, però, non limita né regola il dispiegamento delle armi nucleari. Per questo diverse campagne chiedono che il governo di Roma firmi il trattato sul bando totale delle armi atomiche (Tpan) approvato dall’Onu nel 2017 e che avrà carattere vincolante. Ma per entrare in vigore il Tpan deve essere ratificato da 50 Stati e per ora siamo solo a 40. Neanche l’Italia, come molti altri paesi Nato, lo ha firmato. In base al testo, il solo possesso, oltre che l’uso e la minaccia, di queste armi costituiranno un crimine, come già avviene per altre convenzioni che vietano il possesso di armi di distruzione di massa.

Ma in tempi di tensioni geopolitiche crescenti, il fallimento delle misure di controllo degli armamenti spiega solo in parte le tensioni verso il riarmo nucleare. I nuovi nazionalismi e populismi autoritari, lo svilimento degli organismi sovranazionali e delle istituzioni multilaterali, contribuiscono – parallelamente alla perdita di memoria collettiva – ad accelerare il processo in atto. Settantacinque anni dopo, il mondo sembra aver dimenticato l’orrore di Hiroshima e Nagasaki, degli hibakusha e dell’intero popolo giapponese.

 

Il commento

Di Gianluca Pastori, ISPI Associate Research Fellow

 

L'attacco su Hiroshima, se da una parte ha aperto l’epoca della supremazia internazionale degli Stati Uniti, dall’altro ha gettato le basi per una nuclearizzazione ‘controllata’ del confronto con l’URSS che ha garantito la stabilità sistemica della guerra fredda. Questo spiega perché i regimi di non proliferazione adottati in quegli anni sembrino entrati in crisi, sia per quanto riguarda la loro capacità di controllare la corsa agli armamenti, sia per quanto riguarda quella di vincolare le stesse parti contraenti, come dimostrano, fra gli altri, il ritiro degli Stati Uniti del trattato Inf nell’agosto 2019 e le crescenti tensioni che esistono intorno al trattato Tpn.

 

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A cura della redazione di  ISPI Online Publications (Responsabile Daily Focus: Alessia De Luca,  ISPI Advisor for Online Publications)

 

 

 

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