19 Dic 2019

Dopo le proteste in Cile

Il mondo che verrà: 10 domande per il 2020

Il 2020 sarà un passaggio di portata storica per il Cile. Dopo le proteste si definiranno le sorti di un processo di “ristrutturazione” democratica senza precedenti.

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La grave crisi politica e sociale che ha travolto il Cile negli ultimi mesi del 2019 ha colto molti di sorpresa, in primis la classe politica e l’élite economica cilena, dimostratesi incapaci di interpretare i segnali di cedimento del patto sociale che stava alla base della transizione democratica iniziata nel 1990. Una transizione democratica che oggi manifesta tutta la sua incompiutezza nella furia della protesta sociale e nella violenza perpetrata dallo Stato contro i manifestanti. Gli eventi drammatici che si sono susseguiti a partire da venerdì 18 ottobre, quando ignoti (dei quali non sappiamo nulla ancora oggi) hanno dato alle fiamme una decina di stazioni della metropolitana facendo piombare Santiago nel caos, hanno esposto agli occhi del mondo intero, e di gran parte della stessa società cilena, la lacerazione del tessuto sociale del paese andino, la debolezza del suo apparato statale e le contraddizioni del suo modello di sviluppo.

Cosa è andato storto dunque? Partiamo con il dire che la crisi cilena viene da lontano. Il Cile degli ultimi trent’anni è stato più volte celebrato come una “success story” unica in America Latina per continuità di sviluppo, solidità istituzionale e stabilità macroeconomica. Tuttavia, nel cammino verso lo sviluppo e l’integrazione profonda nell’economia globale, la società cilena si è disgregata sotto i colpi di una disuguaglianza socio-economica acuta, prodotto di un modello economico che ha sistematicamente relegato lo Stato a un ruolo di subordinazione (in Cile la chiamano Stato “sussidiario”) agli attori di mercato. Nonostante l’alternanza al potere di governi di centro-destra e centro-sinistra, la classe politica è stata incapace di dare una risposta alla crescente frustrazione di ampia parte della popolazione, lasciata sola davanti al mercato, libera di indebitarsi privatamente per comprare l’accesso alla salute, all’educazione e alla pensione. In altre parole, la riduzione della povertà e la parziale mobilità sociale che hanno caratterizzato il Cile dagli anni 2000 sono state il risultato dell’azione di forze di mercato in assenza di regole volte a garantire quell’equilibrio tra profitto privato e beni pubblici essenziale per il mantenimento di un tessuto sociale coeso e di una stabilità democratica.   

Eppure i segnali della crisi del “modello” cileno non sono certo mancati negli ultimi due decenni. Basti pensare alle vibranti proteste studentesche per l’accesso a un’educazione pubblica di qualità iniziate nel 2006, divenute il motore della mobilitazione sociale contro le disuguaglianze create dal modello economico ereditato dalla dittatura; alla continua mobilitazione sociale contro un sistema pensionistico totalmente privatizzato dato in gestione alle Administradoras de Fondos de Pensiones, le quali hanno potuto accumulare profitti straordinari erogando pensioni misere; senza dimenticare la secolare “questione mapuche” che vede contrapporsi le rivendicazioni di autonomia della popolazione indigena originaria del Cile centro-meridionale e la repressione centralista dello Stato cileno in una spirale di violenza che non ha mai accennato a placarsi, oggi simbolo della ribellione contro il sistema neoliberale.

Per capire le cause e la natura della crisi contemporanea è dunque importante identificare il filo conduttore che unisce le tensioni che hanno accompagnato la crescita economica e l’ascesa geopolitica del Cile dal 1990 a oggi. Lo possiamo ritrovare (i) nella richiesta di una maggiore uguaglianza nella distribuzione della ricchezza e di una crescente partecipazione statale nell’erogazione di beni/servizi pubblici; (ii) nella repressione violenta e sistematica dello Stato contro ogni forma di dissenso volto a modificare il modello economico e il sistema politico-istituzionale ereditato dalla dittatura; (iii) nell’assoluta disconnessione tra la maggioranza della popolazione e la classe politica, prodotto a sua volta di una segregazione socio-economica con pochi eguali in America Latina. La combinazione di questi ingredienti ha finito per creare una miscela esplosiva che ha portato alla mobilitazione massiva della popolazione, all’interno della quale si sono per la prima volta saldate le rivendicazioni dei settori più vulnerabili della società e della classe media. Tale mobilitazione è avvenuta in un contesto marcato dalla dilagante sfiducia nelle istituzioni e dalla crescente delegittimazione della classe politica (è interessante notare l’assenza di bandiere e rivendicazioni partitiche all’interno del movimento di protesta), tipici indicatori del collasso di un sistema politico che rivelano come sul Cile si sia abbattuta una “tempesta perfetta”.

Che evoluzioni possiamo attenderci per il 2020? Dopo oltre un mese di mobilitazioni e violenze, i partiti cileni sono riusciti a trovare un accordo per la riforma della Costituzione del 1980, riconosciuto come il passaggio fondamentale per cambiare il sistema politico-istituzionale e il modello economico e superare, una volta per tutte, il lascito della dittatura militare. L’accordo prevede lo svolgimento di un referendum popolare in aprile, attraverso il quale la popolazione deciderà o meno per l’adozione di una nuova Costituzione e definirà la conformazione dell’assemblea costituente (che potrà essere integrata per un 50% o un 100% da rappresentanti della società civile). Prevedibile la vittoria del “Sì”, alla quale seguiranno lunghi mesi di lavori “costituenti” che dovranno produrre una proposta di nuova Costituzione. Questa dovrà essere approvata da una maggioranza di 2/3 dell’assemblea costituente per poi essere nuovamente sottoposta a un voto referendario che dovrà sancirne la ratifica. Il cammino per uscire dalla crisi è ancora lungo e tortuoso. Storicamente i processi costituenti sono passaggi complessi e soggetti a scontri politici che possono ritardarne i lavori o addirittura comprometterne il risultato. Il grande problema è che il Cile di oggi questi ritardi – figuriamoci un fallimento – semplicemente non può permetterseli. La polarizzazione sociale, l’esasperazione della gente e le gravi conseguenze economiche e sociali delle distruzioni provocate dalle proteste rischiano di alimentare una nuova esplosione sociale nel caso in cui i cambiamenti richiesti dalla maggioranza della popolazione dovessero tardare a manifestarsi. Parallelamente al processo costituente, sarà dunque fondamentale la capacità del governo in carica e del congresso di approvare riforme (aumento delle pensioni minime, riduzione dello stipendio dei parlamentari, miglioramento della copertura sanitaria, riforma fiscale, ecc.) che comincino a dare risposte concrete alle esigenze del popolo cileno. Tuttavia, l’azione riformatrice del governo rischia di infrangersi contro le divisioni tra i principali partiti politici nel congresso e le barriere legali poste dall’attuale costituzione, costruita dal regime militare proprio con l’obiettivo di ostacolare cambiamenti strutturali.

Tale scenario getta ombre cupe non solo sulla stabilità politica e macro-economica del Cile, ma anche sulla stessa tenuta democratica del paese, a maggior ragione dato un contesto regionale sudamericano sempre più incline a tollerare attacchi ai processi democratici. I primi mesi del 2020 saranno dunque un passaggio di portata storica per il Cile, nel quale si definiranno le sorti di un processo di “ristrutturazione” democratica di una complessità senza precedenti nella storia recente del paese.

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