24 Set 2019

Iran: le conseguenze della crisi con gli USA

Focus Mediterraneo allargato n.11

Tanto il quadro politico interno quanto la posizione internazionale del paese risentono della crisi in corso con gli Stati Uniti in seguito al ritiro di questi ultimi, nel maggio 2018, dall’accordo sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa) e alla conseguente reintroduzione delle sanzioni, che ha bloccato pressoché ogni rapporto economico e commerciale tra Teheran e i paesi europei. A partire da maggio si registra una postura molto più aggressiva, in parte risultato del graduale aumento di potere delle fazioni più conservatrici all’interno del paese e in parte funzionale a stimolare la comunità internazionale – in particolar modo l’UE – ad agire per dare piena esecuzione al Jcpoa, trovando il modo di neutralizzare le sanzioni Usa. Tuttavia, nonostante gli sforzi e le iniziative diplomatiche europee, la crisi sembra ben lontana dal risolversi.

 

Quadro politico interno

Il quadro politico interno iraniano risente profondamente della crisi legata al confronto con gli Stati Uniti e alla pesante politica sanzionatoria inaugurata da Washington nel maggio 2018, dopo l’abbandono dell’accordo sul nucleare. Tale crisi si riflette tanto sull’economia quanto, di riflesso, sulla politica interna del paese.

Per quanto riguarda il primo aspetto, prosegue la contrazione dell’economia iraniana, legata alla diminuzione forzata delle esportazioni di petrolio. Secondo i dati dell’Economist Intelligence Unit, le esportazioni di greggio iraniano sarebbero passate da 3,82 milioni di barili al giorno (mbd) nella prima metà del 2018 (dunque prima della reintroduzione delle sanzioni Usa) a 2,28 mbd nella prima metà del 2019 (con le sanzioni Usa in vigore e speciali licenze di importazione – waivers – per gli otto maggiori acquirenti mondiali di petrolio iraniano) al crollo definitivo a 700.000 barili al giorno dopo il maggio 2019, ovvero dopo la fine dei waivers per i grandi importatori. L’obiettivo statunitense di “ridurre a zero” le esportazioni di petrolio iraniano rimarrebbe però inesaudito per via della prosecuzione delle vendite a clienti tradizionali come la Cina – seppur in quantità molto basse rispetto al periodo pre-sanzioni – o la Siria di Bashar al-Assad, grazie a tecniche quali il baratto o lo spegnimento dei transponder delle petroliere che permettono di sfuggire al controllo del Tesoro americano. Le rendite che l’Iran è in grado di ricavare da queste vendite sono però di modesta entità: per riuscire a vendere, Teheran è costretta a offrire il proprio petrolio a un prezzo scontato, stimato attorno ai 30 dollari al barile, dunque circa la metà del prezzo attualmente in vigore sul mercato globale e circa 24 dollari a barile in meno rispetto al prezzo di break even fissato nel proprio budget. 

Il crollo delle rendite petrolifere, insieme a un’inflazione attualmente pari al 48% che ha prodotto un aumento del prezzo dei prodotti alimentari del 74,5% tra giugno 2018 e giugno 2019, contribuiscono a comporre un quadro drammatico per l’economia, che è entrata in recessione nel 2018. Anche per il 2019 si stima una crescita negativa (-6,5%), destinata a protrarsi almeno fino al 2020.

Il deterioramento del quadro economico si riflette sul quadro politico interno: il presidente Hassan Rouhani è sotto forte pressione tanto da parte della popolazione quanto da parte dei propri rivali politici, i conservatori che non hanno mai appoggiato pienamente la sua “Westpolitik” e l’engagement con gli Stati Uniti sulla questione nucleare. Tra l’elettorato di Rouhani prevalgono in questo momento la disillusione e la frustrazione: ciò potrebbe risultare in un diffuso astensionismo nei prossimi due appuntamenti elettorali – le parlamentari del febbraio 2020 e le presidenziali del 2021 – portando dunque a una vittoria dei conservatori.

Relazioni internazionali

La doppia pressione alla quale è sottoposta l’amministrazione Rouhani (esterna, da parte degli Usa e interna, da parte dei conservatori) ha portato a un cambiamento nella postura internazionale del paese: lo scorso maggio, a un anno dal ritiro Usa dal Jcpoa, Teheran ha annunciato la fine della “pazienza strategica” e l’avvio di una nuova fase di confronto volta a convincere gli Stati Uniti a mettere fine alle sanzioni e l’UE a trovare il modo di dare corretta implementazione al Jcpoa.

La nuova strategia si compone di due binari: da una parte l’adozione di un comportamento aggressivo – con gli atti di pirateria nel Golfo Persico e la graduale ripresa delle attività nucleari – e dall’altra la continuazione dell’engagement e la ricerca del dialogo con diversi interlocutori, tanto in Europa quanto in Asia.

L’innalzamento della tensione nel Golfo sembra essere imputabile alla securitizzazione della politica estera del paese, con l’affermazione della preminenza del Corpo dei guardiani della rivoluzione (pasdaran) sulla diplomazia guidata da Zarif. I numerosi episodi di attacchi e sequestri di petroliere in transito nello stretto di Hormuz sono volti a dimostrare che Teheran controlla il principale chocke point mondiale, da cui transita circa il 30% del petrolio commerciato ogni giorno via mare: essa è pertanto in grado di infliggere dei costi all’economia globale se non messa in condizione di poter commerciare il proprio petrolio.

Il confronto Usa-Iran giocato nel Golfo ha coinvolto in questi mesi anche altri attori: la crisi diplomatica apertasi a luglio tra Iran e Regno Unito ne rappresenta l’esempio principale. La crisi si apre il 4 luglio, con il sequestro da parte di Londra della petroliera iraniana Grace 1, in transito al largo di Gibilterra e diretta, secondo gli inglesi, alla raffineria siriana di Banias. La motivazione del sequestro della Grace 1 risiede per Londra nella necessità di dare attuazione alla politica sanzionatoria europea nei confronti del regime di Assad, al quale è formalmente proibito l’accesso ai rifornimenti di petrolio. Il fatto che si sia trattato del primo sequestro di questo tipo negli oltre otto anni di guerra, unito al fatto che il segretario di Stato statunitense Mike Pompeo ha salutato quanto accaduto come “un regalo per il 4 luglio” (il giorno dell’indipendenza americana) hanno portato diversi osservatori a concludere che Londra abbia agito su richiesta e per conto di Washington. La risposta iraniana non ha tardato ad arrivare: dopo un tentativo fallito il 10 luglio per l’intervento della Royal Navy, il 19 luglio i pasdaran sequestrano la Stena Impero, petroliera di proprietà del gruppo svedese Stena Bulk ma battente bandiera britannica. La crisi passa in eredità al nuovo governo inglese di Boris Johnson, insediatosi il 25 luglio. In quei giorni si intensifica il dibattito interno all’UE sull’eventualità di una partecipazione dei paesi europei alla missione militare marittima che gli Usa stanno cercando di organizzare nel Golfo a scorta delle petroliere in transito. Mentre Londra dà il proprio assenso a una simile missione, gli altri big europei esprimono dei secchi no: tanto la Francia quanto la Germania e l’Italia ritengono la partecipazione a una simile missione troppo pericolosa per l’eventualità del verificarsi di incidenti che potrebbero portare a un inasprimento del confronto. La crisi giunge a parziale conclusione il 18 agosto, quando alla Grace 1 viene consentito di lasciare Gibilterra dopo aver ricevuto garanzie ufficiali da parte del governo iraniano che la petroliera non si sarebbe recata in Siria. La nave, ribattezzata Adrian Darya 1, comincia una tortuosa navigazione in cerca di un porto di attracco che apparentemente nessun paese ha voluto concedere per timore di incorrere nelle sanzioni statunitensi (che formalmente vietano l’acquisto di petrolio iraniano, ma che hanno portata potenzialmente più estesa), per poi giungere in Siria nel mese di settembre.

Accanto all’adozione di un comportamento più aggressivo nel Golfo, Teheran ha avviato la graduale violazione di alcune delle clausole del Jcpoa, in risposta alla più ampia violazione statunitense. Tale strategia di violazione graduale e programmata consiste nella formulazione di ultimatum di sessanta giorni rivolti principalmente all’Unione Europea affinché metta in atto misure per la corretta implementazione del Jcpoa, ovvero che permettano a Teheran di ricavare la contropartita economica pattuita e venuta meno con la reintroduzione delle sanzioni statunitensi. Allo scadere di ogni ultimatum, Teheran riprende l’esecuzione di specifiche azioni legate al proprio programma nucleare che erano state sospese con il Jcpoa. Ecco che dunque, dall’annuncio di questa nuova strategia, lo scorso maggio, a oggi, Teheran ha ricominciato (7 luglio) l’arricchimento dell’uranio a un livello superiore a quello del 3,67% fissato dall’accordo, nonché lo stoccaggio dello stesso in misura superiore ai 300 kg consentiti dall’accordo, e ha ripreso (6 settembre) alcune attività di ricerca e sviluppo in campo nucleare come ad esempio lo sviluppo di centrifughe di nuova generazione. A fine agosto l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha confermato che Teheran sta ora arricchendo uranio al 4,5% (il livello di arricchimento necessario per la creazione di una bomba è 90%; prima del Jcpoa il livello raggiunto da Teheran era del 20%).

La strategia iraniana di “nuclear brinkmanship” è incrementale e tesa a creare una situazione di urgenza ma non di emergenza, ovvero a innescare nei paesi europei e, su un piano più ampio, nella comunità internazionale, la motivazione ad agire ma non a punire. Finora essa è sembrata funzionare: durante una riunione dell’Aiea convocata d’urgenza dagli Usa a fine luglio, l’agenzia ha rifiutato l’introduzione di misure punitive nei confronti di Teheran, anche e soprattutto per via della consapevolezza generalmente diffusa a livello internazionale della responsabilità statunitense nella creazione della crisi.

Tuttavia, si tratta di una strategia rischiosa poiché se portata all’estremo rischierebbe di finire con il far deviare lo sguardo della comunità internazionale per la responsabilità del fallimento del Jcpoa spostandolo dagli Usa all’Iran, con il conseguente ripristino integrale delle sanzioni anche da parte di UE e Onu; inoltre, la ripresa non controllata del programma nucleare iraniano potrebbe innescare reazioni securitarie da parte di Usa e/o Israele, a sentirsi dunque – soprattutto quest’ultimo – legittimati a intervenire militarmente con un attacco preventivo sui siti nucleari iraniani, come da scenario pre-Jcpoa.

Per scongiurare queste ipotesi ha preso avvio una concitata attività diplomatica a livello europeo, con un forte ruolo propulsivo della Francia di Emmanuel Macron, per tentare di salvare il Jcpoa e ricondurre Teheran al pieno adempimento dell’accordo. Nei mesi estivi si sono svolti diversi incontri tra i ministri degli Esteri (o loro delegati) di Francia, Germania, Regno Unito e Iran, fino alla visita inaspettata, lo scorso 25 agosto, del ministro degli Esteri iraniano Zarif a Biarritz, in Francia, nelle stesse ore in cui si teneva il G7. Sebbene la delegazione iraniana non abbia incontrato quella statunitense, la rilevanza simbolica della visita di Zarif è notevole e si collega all’ingente capitale politico investito da Macron nell’iniziativa. Nei giorni successivi sono cresciute le indiscrezioni circa la possibile creazione da parte francese di un pacchetto di assistenza finanziaria da 15 miliardi di dollari per ricompensare Teheran delle mancate rendite petrolifere causate dalle sanzioni Usa (una compensazione comunque inferiore alle rendite petrolifere in periodo pre-sanzionatorio, pari a circa il doppio, 30 miliardi di dollari annui), in cambio del pieno ritorno iraniano agli obblighi previsti dal Jcpoa. L’iniziativa di Macron sembra però essere stata per il momento rigettata dagli Usa, pronti a colpire le banche europee che dovessero agire da responsabili dell’apertura di credito; una soluzione potrebbe essere quella di porre l’operazione in capo alla Banca centrale europea oppure alla Banca centrale francese, più difficili da colpire per il Tesoro Usa. La situazione però è estremamente fluida: l’opposizione statunitense allo sforzo diplomatico francese sembra legata, insieme all’introduzione di nuove sanzioni varate nella prima settimana di settembre, alla volontà da parte di Donald Trump di ottenere egli stesso un successo negoziale con Teheran, da sancire con un incontro pubblico tra lo stesso Trump e il presidente iraniano Rouhani, come già accaduto tra Trump e il nordcoreano Kim Jong Un. L’Iran ha però ribadito più volte di non essere interessato a mere photo-opportunity, e di essere aperto al dialogo con gli Usa a patto che questi sospendano le sanzioni sul petrolio. Un’evoluzione della situazione è possibile durante i lavori dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si terrà a fine settembre a New York e che vedrà la partecipazione per l’Iran proprio del presidente Rouhani.

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