20 Nov 2020

RCEP: il nuovo motore della crescita asiatica

Libero Scambio

Un accordo storico, che segna l’avvio del blocco commerciale e di investimento più grande al mondo, in grado di rivoluzionare la geopolitica della regione e i rapporti tra gli Stati dell’Est asiatico. È il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), l’accordo economico-commerciale tra i 10 Paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda, firmato il 15 novembre dopo otto anni di negoziati. Un accordo che segna nuove prospettive per lo sviluppo economico della regione, ne promuove l’integrazione e segnala una sostanziale perdita di peso strategico nell’area degli Stati Uniti, ormai estranei ai giochi dei grandi trattati multilaterali di libero scambio nel quadro della presidenza Trump. 

La tempistica dell’accordo è innanzitutto indicativa dei pesanti effetti della pandemia sull’economia e sulle relazioni internazionali. È stata infatti la spinta della profonda crisi economica globale (che vede l’economia cinese come l’unica al mondo che continua a crescere) a riuscire a mettere d’accordo l’Asia orientale, quella del Sud-Est e il Pacifico. In questo senso, il RCEP è un primo passo verso quella tendenza alla regionalizzazione degli scambi che era già entrata nei dibattiti internazionali fin agli albori della guerra commerciale. L’Asia, più di altre aree del mondo ha dalla sua da tempo un ricco tessuto di organizzazioni regionali su cui appoggiarsi che facilita uno spostamento in questa direzione. Non a caso, è stato all’interno del summit autunnale dell’ASEAN (12-15 novembre) che l’accordo ha trovato la sua risoluzione, confermando l’importanza strategica di questa organizzazione regionale e la crescente rilevanza economica dell’area. E questo stesso tessuto potrebbe riuscire a far sì che la messa in atto dell’accordo stesso si velocizzi.

 

I numeri di una svolta

Bastano alcuni dati per comprenderne l’importanza strategica: il RCEP creerà un’area di cooperazione economica di 2,2 miliardi di persone, che producono il 30% del Pil e il 27,4 % del commercio globali. Il gruppo dei Paesi membri copre il 50% della produzione manifatturiera globale, il 50% della produzione automobilistica e il 70% di quella elettronica. E il blocco potrebbe divenire ancora più importante qualora l’India, ritiratasi dalle negoziazioni nel 2019 , decidesse di aderirvi in futuro. L’area attualmente attrae il 24% degli investimenti diretti esteri ed è la più dinamica a livello internazionale, grazie anche a una strategia di successo nel contenimento della pandemia da coronavirus. Si stima che l’accordo possa incrementare il Pil mondiale di 209 miliardi di dollari al 2030 e il commercio internazionale di 500 miliardi entro la stessa data. Nella regione l’impatto stimato secondo l’UNCTAD è una crescita del Pil dello 0,2% al 2030 e una crescita delle esportazioni del 10% entro il 2025. Entro il 2030 la Cina si avvantaggerà di un maggior reddito legato al RCEP (100 miliardi di dollari), seguita da Giappone (46 miliardi di dollari), Corea del Sud (23 miliardi di dollari) e Sud-Est asiatico (19 miliardi di dollari). Essendo esclusi dall’accordo gli Stati Uniti rinunceranno a circa 131 miliardi di dollari di guadagno stimato, mentre la decisione dell’India di non aderire comporterà la rinuncia a circa 60 miliardi di dollari di reddito aggiuntivo.

Il RCEP eliminerà tra l’85 e il 90% delle tariffe al commercio interne alla nuova area. Tuttavia, l’agricoltura resta assente dall’intesa, così come vi è un’inclusione limitata del settore dei servizi e dei settori ritenuti strategici. Pochi i passi avanti inoltre nella definizione di standard comuni per i prodotti e nessun progresso è stato registrato sulla tutela del lavoro, dell’ambiente, e sulla regolamentazione delle State-Owned Enterprises (SOEs). La ragione è da ricercare soprattutto nella grande diversificazione delle economie dei Paesi parti dell’accordo, attualmente in fasi differenti del proprio sviluppo. Il RCEP tuttavia creerà regole comuni sull’origine dei prodotti nell’area, in modo tale che i certificati d’origine emessi in un Paese membro siano validi in tutta la regione, riducendo in tal modo i costi di spedizione e transazione interni. L’importanza del RCEP deriva inoltre dal riunire in un unico strumento questioni prima sovrapposte e trattate in 27 differenti accordi di libero scambio (FTAs) e 44 accordi bilaterali di investimento (BITs) tra i Paesi dell’area. 

 

La centralità di Pechino

Pechino spingeva da tempo per una più forte integrazione economica e commerciale, insistendo per un maggior coordinamento tra la Belt and Road Iniziative (BRI) cinese e il Master Plan on ASEAN Connectivity (MPAC) 2025. Una relazione privilegiata confermata anche dalla crescita senza sosta – nonostante la pandemia – del commercio tra Cina e Paesi ASEAN: ad agosto 2020 ha raggiunto i 430 miliardi di dollari, in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. L’ASEAN ha così sorpassato l’UE come primo partner commerciale di Pechino. Nei primi sei mesi del 2020, inoltre, gli investimenti bilaterali (sia in entrata che in uscita) sono aumentati del 58% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Cifre importanti, se si considera che Pechino, attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), aveva già investito nella regione 213 miliardi di dollari dal 2013. Non è un caso quindi, che il primo ministro cinese Li Keqiang abbia salutato l’accordo con soddisfazione definendolo una “vittoria del multilateralismo e del libero commercio”. 

Proprio la preminenza di Pechino in questo accordo potrebbe ulteriormente favorire i progetti infrastrutturali – energetici, di trasporto, digitali – nella regione finanziati dalla Cina anche prima del lancio ufficiale della BRI. Già nel 2007, la cinese Sinohydro investiva 1,7 miliardi di dollari per una centrale idroelettrica in Laos e la Shanghai Electric 1,27 miliardi per una centrale a carbone in Indonesia. Nel 2008 la China Communications Construction finanziava la costruzione del terminal internazionale nel porto di Saigon in Vietnam per 160 milioni di dollari. Nel 2009 la China Railway Engineering investiva 350 milioni di dollari nella rete ferroviaria vietnamita, mentre nel 2010 la Dongfang Electric costruiva una centrale a carbone in Vietnam per 1,4 miliardi e nel 2012 Huawei investiva 350 milioni nella rete dati delle Filippine. Solo alcuni esempi per un flusso di investimenti che dal 2007 al 2012 è stato pari a 59,2 miliardi di dollari. 

 La maggiore influenza commerciale, finanziaria e di investimenti della Cina nella regione attraverso l’accordo potrebbe incrementare altresì il peso politico di Pechino nell’area, soprattutto in un’ottica di competizione con gli Stati Uniti. A conferma, la Repubblica popolare mira  a utilizzare le sue leve economiche per ottenere nuovi mercati per le sue tecnologie d’avanguardia, tra cui la telefonia mobile 5G e 6G, l’intelligenza artificiale (AI) e i sistemi di sorveglianza, il suo sistema di posizionamento globale e di navigazione Beidou, lanciato di recente come concorrente del GPS controllato dagli Stati Uniti. Questo permetterà alla Cina di spingere i suoi standard in queste tecnologie emergenti con l’obiettivo di farle adottare in ampie porzioni di mondo, aiutando le sue aziende hi-tech a superare i concorrenti. 

L’uscita di Perchino dall’emergenza sanitaria ed economica in anticipo rispetto al resto del mondo, con un tasso di crescita del Pil dell’1,8%, nel 2020 e addirittura dell’8% nel 2021, potrebbe certo rendere i Paesi ASEAN più dipendenti dalle esportazioni e dagli investimenti provenienti dall’ingombrante vicino. Il peso della Cina nel RCEP, aumentato ulteriormente dopo l’uscita dell’India dalle negoziazioni per l’accordo, è infatti uno dei maggiori elementi di criticità. E la diffusione, nel medio e lungo periodo, degli standard cinesi nella regione farebbe incrementare anche il soft power di Pechino. La riduzione delle tariffe derivante dall’accordo, inoltre, va soprattutto a beneficio della competitiva industria cinese: l’eliminazione delle tariffe andrebbe a vantaggio di prodotti attualmente interessati da dazi dal 2 al 6%, in cui Pechino ha un forte vantaggio competitivo ed è grande esportatore. Tra questi, i veicoli elettrici, settore in cui la Cina è il maggior produttore mondiale e che conoscerà una forte espansione nel prossimo futuro grazie ai piani di transizione energetica delle maggiori economie mondiali, tra cui la stessa Cina. 

 

Ma benefici per tutta l’area

Si tratta, in ogni caso, di un accordo che sfrutta la complementarietà produttiva tra i Paesi membri. Che, quindi, non va a vantaggio esclusivo di Pechino. A beneficiarne saranno certo anche i Paesi ASEAN e Stati come Giappone e Sud Corea. I secondi riusciranno infatti a costruire più facilmente delle catene del valore regionali, con i membri ASEAN che diverranno sempre più i destinatari degli investimenti sudcoreani e nipponici per la produzione di componentistica per la propria industria. Con la conseguenza di aumentare la propria capacità industriale e, nel medio periodo, determinare una riduzione dei divari di reddito nella regione. Un fenomeno non nuovo, considerando che i Paesi ASEAN hanno ricevuto negli ultimi anni IDE in entrata da Giappone, Sud Corea e Taiwan per un importo superiore a quelli destinati da questi Paesi alla Cina. Una riallocazione degli investimenti che non è solo risposta ai crescenti costi del lavoro in Cina, ma anche esigenza di differenziare catene del valore, prima eccessivamente sino-centriche.  Per partecipare ai benefici del nuovo accordo, le imprese americane ed europee dovranno perciò investire in stabilimenti produttivi nei Paesi membri del RCEP, mettendo potenzialmente in stand-by l’impegno, in particolare delle aziende USA, a rimpatriare la produzione negli Stati Uniti (re-shoring). 

 

Un’area, quella dell’ASEAN, che ha fatto registrare dati economici migliori rispetto al resto delle regioni del globo, anche grazie al successo del contenimento della pandemia. Il Vietnam, in particolare, traina la ripresa della regione, con un Pil che ha fatto registrare nel terzo trimestre del 2020 un aumento del 2,6% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, unica importante economia asiatica a registrare, insieme alla Cina, una crescita nel 2020. E la centralità del Vietnam è destinata inevitabilmente ad aumentare: il Pil 2021 è previsto crescere, secondo le previsioni d’autunno del FMI, del 6,7%, anche grazie alla spinta dell’EU-Vietnam Free Trade Agreeement che, insieme al RCEP, trasformerà il Paese in una piattaforma commerciale e logistica fondamentale nella regione e non solo. Dati che si affiancano a quelli positivi per l’intera area: Paesi come Indonesia (Pil 2021 +6,1%), Cambogia (+6,8%), Filippine (+7,4%) e Malaysia (+7,8%), traineranno la crescita dell’intera regione. 

 

L’allarme americano e l’incognita indiana

L’evoluzione asiatica intanto mette in allarme il mondo politico e imprenditoriale americano. Il Presidente eletto Joe Biden, dopo la notizia della firma del RCEP, ha subito affermato che saranno gli Stati Uniti e i loro alleati a dover scrivere le regole del libero commercio, non la Cina, e ha già annunciato un piano sul fronte del commercio internazionale che sarà reso pubblico dopo il suo insediamento. Un’affermazione che pare discostarsi  dalle politiche assunte dall’amministrazione Trump nel nome di “America First”. Proprio il ritiro americano dalla Trans-Pacific Partnership (TPP) nel 2017 è stato uno dei fattori che hanno favorito la conclusione del RCEP e hanno potenziato la centralità cinese nei giochi commerciali asiatici. Tre fondamentali alleati americani (Corea del Sud, Giappone e Australia) sono entrati a far parte di un accordo a forte protagonismo cinese. Perciò per Washington diviene sempre più necessario un nuovo “pivot to Asia”, se gli USA non vorranno perdere legami economici, politici e commerciali in una regione sempre più strategica. Si vedrà a partire dal 2021.

Oltre all’America, il grande assente dal RCEP è l’India che si era ritirata dai negoziati già nel 2019. Questa mossa divide ancor di più i due giganti asiatici, provati da un’estate di tensioni sulle vette himalayane. New Delhi  aveva deciso di auto-escludersi dall’accordo poiché temeva che, con l’abolizione di gran parte delle tariffe doganali, il mercato indiano sarebbe stato invaso da prodotti a basso costo stranieri, di fatto andando a colpire i piccoli e medi imprenditori che solo nel 2019 contavano più di 63 milioni tra attività rurali e urbane. Tuttavia, l’assenza dell’India non rischia solo di avere un effetto negativo sull’economia nazionale e sulle relazioni con la Cina, ma rappresenta anche un fattore di rischio per i Paesi che partecipano al RCEP poiché fa sì che venga meno un contraltare di peso all’ingombrante economia del Dragone. Una decisione, quella di Delhi, che in ogni caso renderà più complessi i target di crescita economica nel medio e lungo termine e più ardua l’acquisizione della tecnologia necessaria per sostenere lo sviluppo economico del Paese, rendendo probabilmente obbligato un rafforzamento dei rapporti con Washington e Bruxelles. Ma anche qui si vedrà.

Le firme di Australia e Giappone, invece, oltre a essere certamente dovute alla necessità di rilanciare le economie nazionali, possono essere considerate il prodotto degli ultimi quattro anni dell’Asia policy di Donald Trump. Il “vuoto” lasciato dagli Stati Uniti a livello regionale, infatti, ha favorito un avvicinamento delle economie regionali alla Cina ma ha anche spaccato in due i membri del ‘Quadrilateral Security Dialogue’  (USA, Giappone, Australia e India)al RCEP. Tra le conseguenze di questa divisone potrebbe esserci anche una maggiore difficoltà di coordinamento nel creare un’alternativa agli investimenti cinesi in tutta la regione. 

Dinamiche complesse che determineranno ulteriori sviluppi nel corso dei prossimi mesi da parte europea e americana. Da parte cinese intanto, arrivano rassicurazioni. Il Presidente Xi Jinping, intervenuto il 19 novembre al vertice dell’Asia-Pacifico,ha escluso il decoupling con le economie occidentali e, anzi, si è detto pronto all’aumento delle importazioni e a nuovi accordi di libero scambio. Propositi concilianti che, tuttavia, non contraddicono per ora una tendenza globale alla regionalizzazione degli scambi e alla frammentazione del commercio internazionale che, da eccezione, sta diventando regola. A danno di un possibile  e auspicabile rilancio della liberalizzazione degli scambi globali nel quadro WTO. 

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