23 Set 2020

Yemen: diplomazia ONU e saudita in affanno

Focus Mediterraneo allargato n.14

Combattimenti, diffusione di Covid-19, mancanza di carburante (soprattutto nelle aree degli insorti huthi), insicurezza alimentare e idrica, un disastro ecologico all’orizzonte: sono ormai troppe le variabili che dovrebbero spingere gli yemeniti – e le potenze regionali coinvolte – a far tacere le armi. Eppure, l’obiettivo non è ancora a portata di mano: stavolta, le parole dell’Inviato speciale delle Nazioni Unite Martin Griffiths sono quanto mai nette. Dall’aprile 2020, l’inviato dell’Onu ha ripreso a negoziare tra il governo riconosciuto e gli huthi (gli insorti sciiti zaiditi, appoggiati dall’Iran): l’obiettivo è approvare una dichiarazione congiunta “Joint Declaration” che includa un cessate il fuoco nazionale (non più accordi “a segmenti” geografici), misure economiche e sociali e la ripresa – infine – di un processo politico. Ma i segnali vanno in un’altra direzione. Basti pensare alla città di Hodeida sul Mar Rosso, oggetto dell’accordo di Stoccolma (dicembre 2018): Griffiths riconosce che lì le violazioni del cessate il fuoco sono addirittura in crescita, perché il Comitato di Ridispiegamento e Coordinamento (“Redeployment Coordination Committee”) e il meccanismo congiunto per l’implementazione dell’accordo “non stanno ancora funzionando”[1]. Più a sud, invece, è l’Arabia Saudita a sperimentare l’impervio compito di cercare la pace in Yemen, proprio adesso che i sauditi vogliono tirarsi fuori da un conflitto che hanno contribuito a complicare. Infatti, l’accordo di Riyadh mediato dal regno saudita tra governo riconosciuto e secessionisti del Consiglio di transizione del sud (Stc) a novembre 2019 rimane bloccato: l’esecutivo unitario è ancora un miraggio, tra spiragli politici, sfiducia e ripresa dei combattimenti. E il coronavirus in Yemen non fa quasi più notizia, forse perché il conteggio dei casi (sarebbero circa 2.000 quelli accertati al 1° settembre 2020, con circa 570 morti), sfugge ormai a qualsiasi monitoraggio, specie nelle aree nordoccidentali controllate dagli huthi. 

 

L’Accordo di Riyadh tra governo riconosciuto e
secessionisti del Consiglio di transizione del sud è ancora bloccato

È accaduto ancora: l’Accordo di Riyadh, negoziato nel 2019 dall’Arabia Saudita tra il governo riconosciuto dello Yemen (di cui i sauditi sono i primi sponsor) e i secessionisti del Consiglio di transizione del sud (informalmente sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti, Eau)[2], è di nuovo in bilico. E la città di Aden, epicentro della contesa, è intanto ostaggio di polemiche incrociate e scontri intermittenti, nel vuoto dell’amministrazione locale. Infatti, la cronaca politico-bellica del 2020 yemenita è costellata di strappi fra alleati e ricuciture “a tempo”: la prova più inconfutabile che i valori e gli obiettivi del fronte che si oppone agli huthi (gli insorti sciiti zaiditi del nord, appoggiati dall’Iran) sono troppo disomogenei, dunque incapaci di perseguire un risultato politico univoco e durevole. Dopo la “dichiarazione di autogoverno” pronunciata dal Stc (25 aprile 2020) e la ripresa delle ostilità dentro il fronte anti-huthi, l’Arabia Saudita ha riavviato negoziati indiretti tra governo e secessionisti nella capitale saudita: un sì al dialogo basato sulla promessa di de-escalation tra le parti e cessate il fuoco per il governatorato meridionale di Abyan (22 giugno 2020, con presenza di osservatori sauditi). In quell’occasione, il Consiglio di transizione del sud ha ritirato la suddetta dichiarazione di autogoverno, tornando a negoziare nella cornice dell’Accordo di Riyadh.

Uno sforzo politico nonché tecnico, guidato dall’Arabia Saudita che di quell’accordo è mediatrice e garante, sfociato poi nell’approvazione di un “meccanismo di implementazione dell’Accordo di Riyadh”[3] (29 luglio 2020), che di fatto cambiava la sequenza (“sequencing”), ma non i contenuti dell’Accordo, anticipando quindi l’attuazione dell’allegato politico dello stesso (formazione di un esecutivo 50:50 tra filogovernativi e Stc entro 30 giorni dalla firma), a quello militare (ritorno allo status quo pre-scontri dell’agosto 2019, ritiro e riorganizzazione delle forze militari e di sicurezza sotto i ministeri di Difesa e Interni). Questo passaggio politico ha permesso la nomina del nuovo governatore di Aden, Ahmed Lamlas, nonché del capo della sicurezza locale Mohammed al-Hamedi. E i secessionisti del Stc, fortemente legati agli Eau, hanno mostrato una significativa apertura politica anche nei confronti dell’Arabia Saudita. Tuttavia, neanche il meccanismo studiato dai sauditi è riuscito a sbloccare l’attuazione dell’Accordo di Riyadh, mentre i combattimenti sono ripresi in Abyan, complice anche il tentativo dell’Arabia Saudita, a metà agosto, di avviare il ritiro delle forze belligeranti dalla città di Aden e dal governatorato di Abyan. Il Stc ha così sospeso la partecipazione all’intesa (26 agosto 2020), anche a causa della “mancanza di servizi” nelle aree gestite dal governo: gli scontri tra forze del Stc e filo-governativi legati al partito Islah si sono riaccesi tra le città di Shaqra e Zinjibar, nell’Abyan costiero.

Combattimenti si registrano anche in prossimità dell’importante base aerea di al-Anad (Lahj), dove si confrontano forze pro-Stc in controllo della 4th Military Region dell’esercito (Aden) e brigate pro-Hadi. I secessionisti del sud hanno inoltre denunciato, dall’inizio del cessate il fuoco del 22 giugno scorso, oltre 350 violazioni da parte governativa, nonché l’uccisione e il ferimento di una settantina di miliziani meridionali. La frattura tra governo riconosciuto e secessionisti si è dunque riaperta: d’altronde, le profonde contraddizioni dell’Accordo di Riyadh non hanno mai lasciato presagire un percorso in discesa. Da un lato, le istituzioni riconosciute del presidente ad interim Abd Rabbu Mansour Hadi sono costrette a scendere a patti con i secessionisti pur di fronteggiare l’avanzata militare degli insorti huthi tra Mareb e Al Jawf (Yemen nordoccidentale). Ma la sfiducia che il blocco dei filo-Hadi, capeggiato da Islah (partito che racchiude anche la Fratellanza Musulmana yemenita) e dalle forze del Generale Ali Mohsin Al Ahmar, nutre nei confronti dei secessionisti filo-emiratini è forte. Dall’altro lato, il Consiglio di transizione del sud e il suo leader, l’ex governatore di Aden Aydarous Al Zubaidi, hanno accettato di firmare un accordo, quello di Riyadh, che neppure menziona la causa meridionale, né alcuna prospettiva di autonomia e/o secessione per le regioni del sud, contravvenendo così alla loro stessa ragion d’essere. Ciò si spiega, in parte, con la possibilità di poter formalmente entrare nelle istituzioni, traendone vantaggi di posizione. Al contempo, tale mossa incentiva però la frammentazione politica tra le molte anime del fronte del sud.

 

Sud, oltre la contesa per Aden e Abyan: equilibri politico-militari in evoluzione a Shabwa, Hadhramawt, Mahra e Socotra

Il Consiglio di Transizione del Sud non rappresenta l’intero panorama autonomista/secessionista dello Yemen e tante aree meridionali, seppur pro-indipendenza, non vogliono essere governate da Aden. Infatti, la leadership politica e militare del Consiglio di transizione del sud è radicata soprattutto nell’area di Aden e nel cosiddetto “sud tribale”, che si snoda lungo l’ex confine tra Yemen del nord e del sud (separati fino al 1990). I governatori di Lahj, Abyan, Shabwa, Hadhramaut, al-Mahra e Socotra – ovvero la maggioranza delle regioni del sud – rigettarono subito, con comunicati ufficiali, la dichiarazione di auto-governo di Aden (25 aprile 2020), denunciando un “colpo di stato” contro il governo[4]. Solo il governatorato di al-Dhalae non si chiamò fuori. Questi governatori, nominati dal governo, sono in molti casi vicini al partito Islah, che è pro-unità nazionale, quindi fortemente contrapposto ai secessionisti e inviso anche agli Eau. La frammentazione tra i governatorati del sud, evidenziata dalla reazione alla “dichiarazione di autogoverno” dei secessionisti, ha riacceso la competizione tra governo riconosciuto e Stc, entrambi desiderosi di allargare la propria area di influenza nel sud. Non è un caso che il nuovo governatore di Aden, nomina di compromesso, sia in realtà l’ex governatore di Shabwa, area di cui è originario; allo stesso modo, il nuovo capo della sicurezza di Aden proviene dall’Hadhramaut. Due nomine di peso che non rientrano nel classico identikit geografico dell’attuale dirigenza del Consiglio di Transizione del Sud, e che guardano a due regioni strategiche del paese. Dopo che le forze filo-governative hanno consolidato la presenza militare nel governatorato di Shabwa (nel corso degli scontri dell’agosto 2019), le circa 8.000 Shabwani Elite Forces (Sef) di formazione emiratina si sono frammentate; molti di coloro che combatterono nelle Sef e parteciparono a campagne di contro-insorgenza nei confronti di al-Qaeda nella Penisola Arabica (Aqap) sono ora oggetto di agguati e vendette da parte dei jihadisti. Nel luglio scorso, delegazioni dell’Hadhramaut Tribal Alliance (rappresentanza tribale) e dell’Hadhramaut Inclusive Conference (società civile) sono state invitate a Riyadh per colloqui nell’ambito della de-escalation fra governo riconosciuto e Stc.

Come ha brillantemente notato l’analista Ammar al-Aulaqi, il governo controlla ancora il “triangolo del potere” tra Mareb, Ataq (Shabwa) e Sayyun (Wadi Hadhramaut), una zona strategica per i giacimenti petroliferi e gasiferi[5]: ciò assicura, per il momento, la possibilità di accedere a parte delle entrate energetiche (una quota del 20% viene trattenuta a livello regionale in Mareb e Hadhramaut), dando così un’aura di legittimità in più alle istituzioni guidate dal presidente Hadi, che faticano – quando riescono – a pagare gli stipendi di soldati, poliziotti e dipendenti pubblici. Inoltre, tali entrate contribuiscono inevitabilmente a foraggiare le reti di clientela, anche tribale, che permettono alle forze filo-governative di contenere l’avanzata degli huthi nel nord-ovest.

Infine, Mahra (governatorato di confine con l’Oman) e l’arcipelago di Socotra sono sempre più al centro della competizione regionale tra Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Oman. Nel governatorato orientale di Mahra, forze militari saudite si sono scontrate con milizie locali tradizionalmente filo-omanite a Shihan, nei pressi del confine, dove i sauditi avevano inviato rinforzi. Nel mese di luglio, il Consiglio di transizione del sud è riuscito, dopo settimane di scontri intermittenti, a prendere il controllo di Hadiboh, capoluogo dell’isola principale dell’arcipelago di Socotra, espellendo il governatore in carica, leale al governo riconosciuto, e nominandone un altro. Per posizionamento geografico, Socotra rappresenta un avamposto naturale fra Golfo, Africa orientale e Asia meridionale. Più in generale, è l’intero Yemen a costituire un paese-soglia fra tre continenti: le sue coste e isole sono centrali nelle dinamiche di sicurezza marittima cross-regionale. Come membro della cosiddetta Red Sea Alliance (Council of Arab and African states bordering the Red Sea and the Gulf of Aden) a guida saudita, il primo ministro yemenita Maeen Abdulmalik Saeed ha incontrato a fine agosto l’ambasciatore di Gibuti in Yemen nel regno, per discutere di sicurezza marittima nel Mar Rosso e nello stretto del Bab el-Mandeb. Anche il leader dei secessionisti al-Zubaidi ha incontrato l’ambasciatore gibutino: un colloquio centrato sull’Accordo di Riyadh.

 

Gli huthi: offensiva tra Mareb e al-Jawf e condanna della normalizzazione tra Emirati Arabi e Israele

Gli huthi proseguono i combattimenti, specie nello Yemen nordoccidentale, tra i governatorati di Mareb e al-Jawf. E nelle aree sotto il loro controllo, gli huthi hanno ora istituito il “quinto” di tradizione sciita (khums), ovvero la tassa del 20% su ogni profitto e risorsa naturale a beneficio del lignaggio hashemita (i discendenti del profeta Maometto di cui la famiglia al-Huthi fa parte)[6], enfatizzando così una divisione tra classi che potrebbe generare nuovo malcontento da parte di molte tribù, già marginalizzate nella gestione politico-securitaria del territorio.

Dalla metà di agosto 2020, le forze filo-governative hanno avviato una controffensiva di terra per recuperare al-Hazm (capoluogo di al-Jawf) e le aree cadute sotto il controllo degli insorti sciiti zaiditi, grazie anche alla copertura aerea della coalizione saudita. In questo frangente militarmente delicato, il 1° settembre 2020 l’Arabia Saudita ha rimosso tramite decreto reale il comandante delle forze della coalizione che interviene in Yemen, il principe Fahd bin Turki bin Abdulaziz al-Saud (già comandante dell’esercito saudita), in carica dal 2018. Al suo posto, re Salman ha nominato il generale Mutlaq bin Salem bin Mutlaq al-Azima. Fahd bin Turki è infatti accusato di corruzione, insieme al figlio (vicegovernatore della regione saudita di al-Jouf) e a un numero non precisato di militari (tra cui degli ufficiali), per sospette transazioni finanziarie presso il ministero della Difesa. L’inchiesta è partita grazie a una lettera del principe ereditario Mohammed bin Salman a Nahaza, l’autorità di controllo e anti-corruzione che ha già condotto inchieste analoghe. Al di là delle responsabilità penali da accertare, la mossa di re Salman e del figlio potrebbe anche rientrare nel tentativo di accrescere il potere della nuova leadership saudita presso le forze armate e il ministero della Difesa (di cui il principe ereditario è ministro e suo fratello minore, Khaled bin Salman, è vice ministro).

Gli scontri tra huthi e governativi continuano sporadicamente anche nel governatorato di Hodeida (distretto meridionale di Tahita) e, con intensità maggiore, al confine tra i governatorati di Mareb e al-Bayda. Proprio in al-Bayda (dove sono presenti Aqap e una cellula del sedicente Stato islamico), gli huthi, che controllano aree del governatorato, hanno lanciato una campagna anti-jihadista. Gli huthi rivendicano di aver liberato il centro della regione di al-Bayda da Aqap e, inoltre, di aver ucciso il leader dello Stato Islamico (Is) in Yemen, Abu al-Walid, dopo un assedio della roccaforte di Is a Qayfa, l’unico hotbed della formazione jihadista in Yemen. Con un’azione particolarmente brutale che ha causato indignazione locale e internazionale, Aqap ha “giustiziato” e poi crocifisso il 15 agosto scorso un dentista, Madhar al-Yousifi (originario di Taiz), accusato dai jihadisti di spionaggio per il governo e per gli Stati Uniti. Il segno forse più tangibile della crescente pressione che Aqap e i rivoli jihadisti yemeniti percepiscono, dopo le campagne di contro-insorgenza guidate dagli Emirati Arabi tra il 2016 e il 2018, i bombardamenti con i droni da parte degli Stati Uniti e, soprattutto, le parallele offensive di terra di governo e huthi.

Insieme all’avanzata degli huthi e ai bombardamenti della coalizione saudita sui territori degli insorti, il movimento-milizia originario di Saada ha intensificato il lancio di missili, droni e razzi contro l’Arabia Saudita. Gli obiettivi, anche in queste settimane, sono le regioni meridionali saudite di Najran e Jizan, tra le aree che hanno più sofferto per gli attacchi degli huthi: in quasi tutti i casi, i missili e i droni sarebbero stati intercettati e distrutti in volo dal sistema di difesa anti-missilistico Patriot in dotazione all’Arabia Saudita, senza provocare danni significativi. Per esempio, il 31 agosto 2020 la coalizione saudita ha intercettato e distrutto un drone armato nei pressi dell’aeroporto internazionale di Abha (Asir), più un’imbarcazione-drone munita di esplosivo nel Mar Rosso, probabilmente partita da Hodeida. Proprio al largo di Hodeida si trova la nave di stoccaggio Fso Safer, priva di manutenzione dal 2015 e con più di un milione di barili di greggio nella stiva. Gli huthi, che di fatto controllano ancora il porto di Hodeida nonostante l’Accordo di Stoccolma mediato dall’Onu (dicembre 2018), hanno fin qui impedito a funzionari ed esperti delle Nazioni Unite di accedere alla nave per ispezioni. C’è il rischio concreto che la Fso Safer possa perdere greggio o addirittura esplodere (soprattutto data l’alta concentrazione di sale nel Mar Rosso), causando danni gravissimi all’ecosistema marittimo nonché all’economia locale basata sulla pesca. Ma in un paese senza pace, anche una nave diventa ostaggio degli obiettivi politici delle parti (in questo caso, degli huthi), nonché uno strumento per “negoziare al rialzo” all’interno di una trattativa diplomatica più ampia.

Sempre molto attenti ai posizionamenti regionali, gli huthi non hanno poi mancato di commentare il principale avvenimento di politica regionale dell’estate: l’annunciata normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Emirati Arabi e Israele. Abdel Malek al-Huthi, leader del movimento, ha condannato la mossa emiratina, celebrando invece le milizie sciite irachene che si oppongono alla presenza statunitense in Iraq. Già prima dell’annuncio, gli huthi avevano “alzato il volume” della propaganda contro gli Eau: Mohammed Ali al-Huthi, capo del Comitato supremo rivoluzionario (che di fatto amministra la capitale Sanaa), aveva accusato Abu Dhabi per la costruzione della prima sinagoga dell’emirato (in apertura nel 2022) nonché per la realizzazione, da loro denunciata, di sinagoghe per gli (ormai pochissimi) ebrei yemeniti in Yemen. Anche Aqap si è scagliata contro la prevista normalizzazione diplomatica: in un discorso, un esponente senior della formazione jihadista, Ibrahim Ahmed Mahmoud al-Qosi, ha paragonato Mohammed bin Zayed al-Nahyan (principe ereditario di Abu Dhabi e leader di fatto degli Eau) ad Anwar Sadat, il presidente egiziano che nel 1979 firmò la pace con Israele (Accordi di Camp David), e ne ha invocato l’uccisione[7]. Anche la politica regionale può condizionate la scena yemenita, data l’elevata presenza di attori e interessi extra-yemeniti nel martoriato paese.

 

NOTE

[1] OSESGY-Office of the Special Envoy of the Secretary General for Yemen, “Briefing to the United Nations Security Council UN Special Envoy for Yemen Mr. Martin Griffiths”, 28 luglio 2020.

[2] Document of the Riyadh Agreement between the Legitimate Government and the Southern Transitional Council, 5 novembre 2019.

[3] “Official Source: Kingdom of Saudi Arabia Proposes to Yemeni Government, Southern Transitional Council Mechanism to Accelerate Implementation of Riyadh Agreement”, Saudi Press Agency, 29 luglio 2020.

[4] “STC declaration of self-administration rejected by majority of Southern governorates”, Al-Masdar online, 26 aprile 2020.

[5] A. Al Aulaqi, “The Yemeni Government’s Triangle of Power”, Sanaa Center for Strategic Studies, 9 settembre 2020.

[6] Si veda M. Hatem e V. Nereim, “Yemen’s Houthis Slammed for ‘Descent from Prophet’ Tax Change”, Bloomberg, 10 giugno 2020.

[7] Per la normalizzazione fra Emirati Arabi e Israele, si rimanda al focus “Emirati Arabi Uniti”, nonché all’approfondimento di questa pubblicazione.

Pubblicazioni

Vedi tutti

Eventi correlati

Calendario eventi
Not logged in
x