11 Mar 2021

Prevenzione? Un dovere collettivo

Secondo quanto riporta l’agenzia federale statunitense CDC (Centers for Disease Control and Prevention), nel corso del 2019 il numero di decessi totali a livello nazionale è stato pari a 2.854.838. Nel 2020, dato ancora da confermare, i morti sono invece stati circa 3.300.000. La differenza è sostanzialmente ascrivibile ai decessi SARS-CoV-2 vale a dire – […]

Secondo quanto riporta l’agenzia federale statunitense CDC (Centers for Disease Control and Prevention), nel corso del 2019 il numero di decessi totali a livello nazionale è stato pari a 2.854.838. Nel 2020, dato ancora da confermare, i morti sono invece stati circa 3.300.000. La differenza è sostanzialmente ascrivibile ai decessi SARS-CoV-2 vale a dire – secondo stime ufficiali per il periodo febbraio 2020-febbraio 2021 – circa cinquecentomila. Fa dunque bene Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, a sostenere che, a causa del SARS-CoV-2, queste persone sono probabilmente decedute in maniera prematura. In altre parole, il Covid-19 è stata la spinta finale senza la quale questi decessi non sarebbero avvenuti o si sarebbero verificati più avanti nel tempo.

 

Il problema della comorbidità

Una volta superata l’emergenza della pandemia, sarà tuttavia fondamentale leggere con attenzione questi dati, al fine di (a) comprendere bene le cause di questo disastro planetario; (b) afferrarne le lezioni e (c) indirizzare le politiche sanitarie per i prossimi mesi/anni. Prendendo ad esempio il caso italiano, secondo le statistiche ufficiali dell’Istituto Superiore della Sanità (ISS) aggiornate al 1° marzo, la percentuale di decessi per i quali il coronavirus è indicato come l’unica causa è il 3,1%. In altri termini, il 96,9% dei decessi SARS-CoV-2 presenta, oltre al virus, altre patologie (una sola nell’11,9% dei casi; due per il 18,5%; tre o più per il 66,5%). Negli Stati Uniti la situazione è molto simile. Secondo dati aggiornati a pochi giorni fa, il 94% dei decessi in presenza di coronavirus è avvenuto in pazienti affetti da un significativo numero di patologie pregresse (in media 3,8). Per il restante 6% dei casi, in cui solo il SARS-CoV-2 è stato indicato come causa di decesso, la stessa CDC afferma, tra l’altro, che ciò è probabilmente dovuto alla “carenza di dettaglio con cui sono stati compilati i documenti sanitari”.

Alla luce di queste statistiche, dunque, risulta evidente che il SARS-CoV-2 può avere conseguenze serie se agisce in un quadro di comorbidità, ma è molto meno dirompente se trova un organismo sano. A conferma di questo si possono citare anche altri dati. Secondo la Fair Health, organizzazione non profit che gestisce larga parte del programma assicurativo pubblico Medicare in USA, dei circa 500 mila pazienti a cui è stata diagnosticata una infezione da Covid-19 nel periodo agosto-settembre 2020, solo lo 0,59% è deceduto. Altre informazioni utili in fase di pianificazione sanitaria sono quelle relative all’età dei decessi. In Italia, ad esempio, solo l’1,1% delle morti (1.055) è avvenuta tra la popolazione sotto i 50 anni e, tra le persone mancate, solo 36 casi (il 3,4%) non presentavano patologie di rilievo. Inoltre, alle stesse conclusioni si può arrivare considerando l’età mediana dei decessi che, secondo l’ISS, presenta uno scarto di ben trentacinque anni tra tutti i pazienti che hanno contratto il virus e coloro che, invece, non sono riusciti a guarire. Infine, è rilevante sottolineare anche la decisione presa dalle autorità sanitarie britanniche che, sin da marzo 2020, alla luce della sua bassa mortalità, hanno escluso il SARS-CoV-2 dall’elenco delle “high consequence infectious diseases”.

 

Ripensare le politiche sanitarie

È quindi evidente che, in fase di policy-making, dovremo sincerarci che le misure di politica sanitaria siano organiche, coerenti e mirate sia ad affrontare il virus, sia a ridurre l’incidenza e l’impatto della comorbidità, alla base della quasi totalità dei decessi (96,9% in Italia, 94% negli Stati Uniti). Questo aspetto è fondamentale per istruire in maniera più efficace le scelte di politica sanitaria. Soprattutto, è cruciale per commisurare le scelte di policy al profilo di rischio, perché (a) riducendo quest’ultimo a monte attraverso un’azione mirata sul tasso di comorbidità e (b) tutelando le fasce sproporzionatamente più colpite rispetto ad altre (cioè gli anziani), dovremmo essere in grado di concepire policies meno draconiane e impattanti sul sistema economico.

Tale approccio organico sarà fondamentale non soltanto per attenuare le comprovate (e letali) conseguenze di un’elevata comorbidità, ma anche perché alcuni esperti già indicano che dovremo imparare a convivere con simili emergenze sanitarie e che tali eventi saranno anche abbastanza frequenti.

A queste conclusioni sembrano giungere autorevoli esperti del settore, tra cui ad esempio Christopher Murray, direttore dell’Institute for Health Metrics and Evaluation dell’Università di Washington, nonché ex direttore esecutivo della World Health Organization (WHO). Partendo dalle considerazioni sull’efficacia dei vaccini Moderna e Pfizer per i casi acuti (e dell’incertezza che invece circonda la loro efficacia in termini di prevenzione generale e di riduzione della trasmissibilità), Murray sostiene che un’immunità di gregge sarà difficilmente raggiungibile. Inoltre, anche ammesso che si possa raggiungere, non è ancora chiaro che durata possa avere. In questo scenario, il Covid-19 potrebbe quindi rappresentare un evento stagionale che sostanzialmente imporrebbe l’uso della mascherina ogni anno, all’arrivo dell’inverno. Secondo lo studioso americano, tali valutazioni sarebbero confermate dall’esperienza dell’antidoto prodotto da Astra Zeneca e utilizzato in Israele dove, nonostante la campagna di vaccinazione abbia raggiunto la quasi totalità della popolazione, la percentuale di soggetti realmente protetti dall’infezione sembra oscillare tra il 30% e il 60%.

 

L’importanza chiave della prevenzione

Risulta quindi cruciale che, in fase di policy-making, parallelamente allo sviluppo di vaccini efficaci si lavori anche sulla prevenzione della comorbidità, cioè delle concause che, in ben oltre il 95% dei casi, rendono l’azione del coronavirus molto più letale. Come riportato dal CDC negli Stati Uniti e dall’ISS in Italia, la quasi totalità dei decessi è avvenuta in presenza di disturbi cardiovascolari, cancro, malattie respiratorie croniche, Alzheimer, diabete, malattie renali, influenza, polmonite. Limitarsi ad agire sui vaccini contro il coronavirus, dimenticandosi di affrontare le cause alla base della comorbidità, potrebbe risultare un errore con conseguenze catastrofiche, sia per la nostra salute, sia per le nostre economie.

Si dovrebbe trovare il coraggio di agire, a livello politico, su tutti i fronti che contribuiscono a causare malessere e decessi. Ciò comporta prevenire, dotarsi di adeguate strutture sanitarie ma, soprattutto, cercare di evitare tutte quelle patologie che generano comorbidità e, senza le quali, il coronavirus non avrebbe causato tutti i danni che vediamo oggi. Da questo punto di vista si può fare davvero tanto, già da oggi, sia a livello di Pubblica Amministrazione, sia a livello privato e, in ultima analisi, anche a livello individuale.

Alla luce di quanto brillantemente illustrato da Murray, soprattutto quando si parla di cambiamento di comportamenti, non sarebbe allora utile cogliere l’occasione di questa grave crisi per riconsiderare le nostre politiche sanitarie, in modo tale che favoriscano un cambiamento epocale anche dei nostri comportamenti – spesso auto-indulgenti e gravemente nocivi? È proprio in momenti come questi, infatti, in cui si parla di Great Reset a livello globale, che si presentano le più grandi opportunità di cambiamenti radicali, positivi e duraturi per le nostre comunità. E su questo aspetto, oltre ad aspettarsi qualcosa dagli altri, possiamo e dobbiamo iniziare a fare qualcosa anche noi, singolarmente.

Prendiamo ad esempio il fumo. Nonostante sia la causa di oltre otto milioni di morti all’anno a livello internazionale, questa abitudine nociva non è ancora stata bandita. Oggetto di un curioso panegirico pubblicato su un quotidiano nazionale (e prontamente stigmatizzato da autorevoli scienziati), il fumo non solo causa danni alla nostra salute, ma anche alle casse dello Stato. Sebbene infatti il settore pubblico incassi più di 10 miliardi di euro all’anno dalla vendita di tabacco, secondo statistiche ufficiali, ne spende il triplo per gestirne i danni attraverso le cure mediche dispensate dal servizio sanitario nazionale. Si tratta di una cattiva abitudine che causa la morte diretta e indiretta di un numero di persone quattro volte superiore, ogni anno, al totale dei decessi catalogati Covid-19 che, tra l’altro, come ci dicono le statistiche ufficiali, sono decessi esclusivamente attribuibili al virus soltanto in un numero molto limitato di casi. Che ci sia spazio per misure “win-win in questo campo è dunque evidente, perché meno fumo porterebbe a (a) un numero inferiore di decessi diretti; (b) la riduzione dei rischi di comorbidità in caso di altre epidemie di virus delle vie respiratorie; (c) minori spese sanitarie; (d) possibilità di allocare i fondi non spesi al finanziamento di altri servizi fondamentali (ad esempio, la prevenzione sanitaria).

Lo stesso discorso vale per l’obesità. Secondo quanto riportato dalla European Association of the Study of Obesity, l’eccesso ponderale e l’obesità rappresentano la causa primaria di oltre 2,8 milioni di decessi all’anno, una cifra sensibilmente maggiore dei decessi in presenza di SARS-CoV-2. Anche in questo caso, lo spazio per politiche coraggiose ci sarebbe. Dichiarare guerra all’eccesso di zucchero nella nostra alimentazione è già stato fatto, sia a livello internazionale, sia statale, sia a livello di settore privato. Ma se il numero di morti da obesità/eccesso ponderale è ancora così alto vuol dire che lo spazio per introdurre misure politiche e regolamentari più incisive è ancora considerevole, ad esempio non limitandosi a tassare i prodotti eccessivamente zuccherati, ma regolamentando la quantità di saccarosio presente negli alimenti.

Per quanto riguarda l’inquinamento atmosferico, poi, in Europa è causa di oltre cinquecentomila morti premature all’anno. Così come il SARS-CoV-2, l’inquinamento atmosferico da polveri sottili, ozono troposferico e biossido di azoto accorcia la vita, ma la normativa mirata a limitare le principali sorgenti di queste sostanze non ha finora avuto l’efficacia sperata se, ad esempio (a) svariate città della Pianura Padana risultano ancora oggi tra le più inquinate in Europa; (b) gli incentivi finora allocati per la trasformazione del parco automobili in circolazione (a fine 2019, oltre trentanove milioni, di cui centomila ad alimentazione elettrica, cioè lo 0,2%) sono stati troppo limitati.

Cambiare abitudini per il bene di tutti: un dovere collettivo

In ultima analisi, dovremmo accettare l’idea di cambiare le nostre cattive abitudini e i nostri comportamenti nocivi. Non sembra avere molto senso permettere la diffusione del fumo e poi spendere risorse pubbliche per la cura delle malattie respiratorie. Come accennato, risulta difficilmente comprensibile (e moralmente inaccettabile) che lo Stato da un lato venda malessere e, dall’altro, ad un costo tre volte superiore rispetto a quanto incassa tramite la vendita di tabacco, curi i suoi cittadini dalle malattie che lui stesso ha contribuito a provocare. Non ha senso permettere di costruire motori sempre più potenti in un contesto in cui gran parte della comunità internazionale è impegnata a (a) ridurre il consumo di fonti combustibili e (b) aumentare l’utilizzo di energie rinnovabili. Così come risulta quasi paradossale permettere, da un lato, la vendita di alimenti eccessivamente zuccherati e, dall’altro, spendere tempo e risorse in campagne per la prevenzione della sedentarietà e dell’eccesso ponderale. Infine, non sembra avere molto senso parlare di vaccino come gesto di responsabilità civile se le nostre quotidiane dimostrazioni di mancanza di responsabilità (sia a livello pubblico che privato) provocano milioni di morti premature e gravi danni al sistema economico.

Viviamo in un periodo storico in cui, in maniera più che legittima, la consapevolezza dei diritti delle minoranze e di categorie storicamente non abbastanza tutelate o regolarmente discriminate sta finalmente venendo fuori. Anche in questo caso, dovremmo essere bravi a sfruttare l’occasione e sviluppare, parallelamente a quello per la tutela dei diritti, un “woke movement dei doveri”, che riporti la considerazione delle nostre responsabilità (sia da parte delle autorità pubbliche che del settore privato) al centro dell’azione politica e di quella individuale. Una presa di coscienza collettiva che ci permetta di dare il nostro contributo quotidiano a migliorare i nostri standard di vita e, contestualmente, ci metta nelle condizioni di influenzare positivamente l’agenda pubblica.

 

Le opinioni contenute in questo articolo sono da attribuire esclusivamente all’autore e non implicano la responsabilità di Intesa Sanpaolo

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