2 Apr 2021

Terre rare: Pechino punta all’Africa, ma non è sola

Nella tavola periodica degli elementi, 17 elementi – noti come “terre rare” – occupano un posto particolare nei calcoli e nelle preoccupazioni strategiche degli Stati. Si può affermare che le terre rare siano le vitamine delle società e industrie moderne del XXI secolo, essendo componenti vitali in numerosi prodotti, da quelli tecnologici (smartphone e monitor) a […]

Nella tavola periodica degli elementi, 17 elementi – noti come “terre rare” – occupano un posto particolare nei calcoli e nelle preoccupazioni strategiche degli Stati. Si può affermare che le terre rare siano le vitamine delle società e industrie moderne del XXI secolo, essendo componenti vitali in numerosi prodotti, da quelli tecnologici (smartphone e monitor) a quelli necessari per la transizione energetica (turbine eoliche, pannelli fotovoltaici e macchine elettriche) fino al settore militare (laser, radar). La difficoltà di sostituirle con altri materiali rende ancora più strategiche le terre rare.

In realtà, occorre precisare che le terre rare non sono veramente rare – per esempio, il cerio è più abbondante del rame – e vi sono depositi di terre rare in numerose parti del mondo. Ciò che rende particolarmente “rari” questi elementi è la loro scarsità di concentrazione: non sono presenti puri, in natura, ma legati ad altri tipi di materiali.

 

Depositi mondiali di terre rare

Fonte: https://mrdata.usgs.gov/ree/map-us.html#home

 

Seppure sia un mercato dai volumi ridotti, chi detiene una posizione di dominio potrebbe giovaresi di importanti leve geopolitiche e negoziali nei confronti di altri Paesi, vista la rilevanza delle terre rare in diversi settori chiave.

 

La centralità cinese

Ad oggi, il mercato è dominato fortemente dalla Cina, che produce circa il 60% delle terre rare mondiali, oltre a processare e raffinare circa l’80%, garantendosi così un ruolo centrale nella supply chain mondiale. Ciò comporta una dipendenza eccessiva delle maggiori economie mondiali dalle importazioni cinesi – rispettivamente l’80% e il 98% delle importazioni di USA e Unione Europea provengono dalla Cina. La preoccupazione di vedere ridotte o addirittura interrotte le importazioni, che potrebbero severamente danneggiare le economie, le industrie e i piani di decarbonizzazione, induce i Paesi a cercare alternative produttive. Tali preoccupazioni sono emerse chiaramente nel 2010, quando Pechino decise di bloccare le esportazioni verso il Giappone a causa di motivi politici. In quell’anno si stimava che il 97% delle terre rare mondiali provenissero dalla Cina. Il crescente scontro (geo)politico tra Stati Uniti e Cina intensifica le tensioni e le preoccupazioni. In diverse occasioni la Cina ha minacciato di ridurre o perfino vietare le esportazioni di alcune terre rare verso gli USA e questo contribuisce a spingere i Paesi alla ricerca di nuovi centri di produzione, onde ridurre il dominio cinese – processo già avviato dopo il 2010.

 

Produzione mondiale di terre rare

 

 

Fonte: UNCTAD

 

L’ascesa dell’Africa

In questo contesto, l’Africa ha la possibilità di emergere come nuovo polo produttivo, con ciò avviando una nuova competizione nel continente tra i principali attori mondiali. Infatti, in Africa vi sono diversi depositi di terre rare, in particolare nei paesi dell’Africa orientale e meridionale, come Sudafrica, Madagascar, Malawi, Kenya, Namibia, Mozambico, Tanzania, Zambia e Burundi.

Tuttavia, attualmente l’Africa rappresenta solo un grande potenziale. L’unico progetto in funzione in Africa è quello di Gakara in Burundi, mentre il deposito Steenkampskraal in Sudafrica potrebbe essere operativo nel breve periodo. In ogni caso, alcuni Paesi africani hanno iniziato a sviluppare progetti a diversi stadi, e tra questi vi sono: Namibia (Lofdal Heavy Rare Earths Project), Malawi (Kangankunde), Angola (Longonjo Project), Tanzania (Ngualla Rare Earth Project), Uganda (Makuutu Project) Madagascar (Tatalus) Mozambico (Xiluvo REE Project) e Sudafrica (Glenover e Phalaborwa Project).

 

 

Gli ostacoli sul tavolo

L’avvio di nuovi progetti è “ostacolato” dalle attuali leggi di mercato, che pongono diverse sfide: la presenza di considerevoli costi, la necessità di grossi investimenti, a cui si aggiungono le valutazioni politiche-ambientali e di social acceptability. Per il dominio cinese nella produzione mondiale e nella raffinazione, più che la disponibilità di riserve domestiche, in effetti, è stato decisivo il forte impegno politico a sviluppare il settore attraverso politiche industriali e sostegno statale.

In ogni caso, se il mercato ostacola l’emergere di alternative fuori dalla Cina, quello che al contrario potrebbe favorirle è la crescente politicizzazione delle terre rare. Ciò, infatti, ne aumenterà la rilevanza strategica inducendo gli Stati a incrementare il loro supporto ai diversi progetti.

 

Le mosse dei diversi Paesi

Primi fra tutti, gli Stati Uniti sono determinati a ridurre il più possibile le proprie vulnerabilità nei confronti della Cina – tratto comune delle ultime due amministrazioni. Nel 2019, il Dipartimento di Difesa americano iniziò delle trattative con il Malawi e il Burundi per valutare il sostegno ad alcuni progetti con lo scopo di assicurarsi forniture di terre rare dal continente africano.

Anche l’Unione Europea è decisa a ridurre la sua quasi totale dipendenza dalla Cina, che potrebbe ostacolare l’implementazione del Green Deal. Se, da un lato, l’UE ha intenzione di aumentare la propria autonomia strategica anche in questo settore, sviluppando alcuni depositi domestici e grazie al riciclo dei materiali, dall’altro, ha affermato nel settembre 2020 di essere disposta a sancire nuove partnership strategiche con i Paesi africani per le forniture di questi elementi.

Altri attori come l’Australia e Giappone hanno interesse ad aumentare la loro presenza in Africa. Ad esempio, l’Australia, nonostante sia il secondo produttore al mondo di terre rare, sta continuando i propri sforzi per allargare le forniture di terre rare e ridurre il dominio cinese, in linea con gli interessi di Washington. Due compagnie australiane stanno lavorando per sviluppare progetti in Tanzania (Ngualla Mining Project) e Malawi (Makuutu Project). Dopo i fatti del 2010, il Giappone sostiene alcuni progetti anche in Africa, ad esempio in Namibia e in Sudafrica, attraverso la Japan Oil, Gas and Metals National Corporation.

Da tale competizione non sarà esclusa la Cina. Infatti, Pechino potrebbe vedersi costretta ad aumentare la propria presenza nel continente africano per garantire forniture di terre rare in futuro, se vorrà realizzare i propri ambiziosi piani industriali nel campo della transizione energetica e tecnologica. Dal 2018, la Cina è diventata importatore per alcune terre rare a causa della forte crescita di domanda interna e delle restrizioni alla produzione illegale, anche per ragioni ambientali. Dunque, la Cina si muoverà per assicurarsi forniture dall’estero, inevitabilmente anche in Africa. Nel continente africano, la Cina potrebbe proporre investimenti e finanziamenti infrastrutturali in cambio di risorse e diritti di esplorazione minerali ed energetici.

Se il sostegno statale e finanziario sarà essenziale per creare alternative produttive, la Cina potrebbe partire già da una posizione di vantaggio, grazie alla sua influenza geoeconomica in Africa, al ruolo come grande consumatore e al suo controllo della raffinazione. Sarà dunque necessario per gli altri Stati assicurare condizioni vantaggiose ai Paesi africani per non rimanere indietro nella corsa alle terre rare, consapevoli che la strada per ridurre il dominio cinese non sarà facile.

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